Sommario
La Festa pubblica o privata nel periodo del Rinascimento
Lo spazio del teatro nel Rinascimento è quello della “festa”: la festa della cultura, la festa della corte e la festa privata.
La festa della cultura è quella in cui gli uomini colti celebrano l’immagine del loro ruolo ed elaborano le proprie regole di vita (sociale ed intellettuale). Questo tipo di festa è soprattutto legato alle accademie, ma non è escluso che uno spazio venga riservato ai letterati anche nelle feste civiche più importanti, durante le quali è più frequente trovare la recita di testi classici (o di loro imitazioni).
Nelle feste della corte si esaltano il mecenatismo, l’esibizione del lusso e del potere, i rituali del gusto e della cultura, che si concretizzino nella magnificenza del signore del luogo. Questo tipo di festa ha uno spazio che va spesso oltre la corte e si dilata nelle piazze e nelle strade della città.
La festa privata è invece una festa che esula dalla dimensione cittadina o cortigiana, per svolgersi prevalentemente in case private ed è rivolta a gruppi ristretti di partecipanti.
In ciascuna di queste occasioni (coincidenti con ricorrenze religiose, o anche con il Carnevale, o legate a ritmi e credenze popolari), che sospendono il normale corso del tempo e delle occupazioni quotidiane, il pubblico – ristretto nelle feste private o accademiche, o indifferenziato in quelle di piazza – assiste alla recita di commedie o tragedie, o alle esibizioni di acrobati, ammaestratori di animali, o anche a tornei, giostre, spettacoli pirotecnici. E ancora in pieno Cinquecento di grande successo sono le performance di giullari, trovatori, e improvvisatori.
Questi intrattenitori professionisti normalmente recitavano (con canti e musiche, e con una tecnica di dizione tale da poter variare timbro vocale per caratterizzare ciascun personaggio) storie edificanti (vite dei santi), poemi cavallereschi (è così che vengono inizialmente diffuse per esempio le storie di Orlando o del ciclo di Re Artù), ma anche invenzioni giocose e utopistiche.
Il Paese di Cuccagna nei testi letterari antichi
Uno degli esempi più significativi del repertorio dei trovatori cinquecenteschi è senza dubbio la storia del Paese di Cuccagna, che non è però un’invenzione del Rinascimento, atteso che sono molti i testi della letteratura anche antichissima, che trattano (o accennano) del Paese di Cuccagna o di simili luoghi immaginari.
Il Paese di Cuccagna designa una sorta di realtà virtuale, quella di una terra dove ogni bene abbonda spontaneamente e quindi senza la fatica del lavoro dell’uomo. Come accennato poc’anzi, racconti e descrizioni di un favoloso luogo di tal genere sono disseminati lungo tutto l’arco della letteratura mondiale. Già nell’Epopea di Gilgamesh (2500 a.C. circa) si menziona una terra favolosa nella quale «pioveranno in abbondanza gli uccelli migliori, i pesci più deliziosi, le messi più ricche. Al mattino pioveranno pani e alla sera vi sarà abbondanza di frumento». Anche Esiodo, ne Le opere e i giorni, narra di un Paese dove non esiste vecchiaia, ma solo feste e allegrezze, e dove la terra produce da sé abbondanti frutti.
In uno dei pochi frammenti superstiti della commedia I minatori, andata in scena nell’Atene del V secolo a.C., Ferecrate descrive un paese che si trova negli inferi, dove scorrono «fiumi pieni di polenta e di brodo nero». E anche nella coeva commedia Gli anfizioni di Teleclide troviamo ruscelli di vino e pani che gareggiano per essere mangiati dagli uomini, pesci che si friggono da soli e fiumi di minestra che trascinano pezzi di carne pronti per essere portati sulle tavole che sono posizionate lungo le rive.
Luciano di Samosata nella Storia vera (II secolo) parla di una città d’oro posta oltre le colonne d’Ercole, le cui mura sono fatte di smeraldo, dove il pane cresce spontaneamente dentro le spighe e non si invecchia mai. Anche nell’anonima Expositio totius mundi (IV secolo) compare un paese nel quale non esistono malattie e la gente si nutre di miele e pane che cadono dal cielo.
E in buona sostanza, anche le fedi abramitiche (e non) che si diffondono nel Mediterraneo postulano paradisi nei quali giungeranno uomini e donne meritevoli di terre dell’abbondanza «dove scorrono latte e miele».
Il Paese di Cuccagna nel Medioevo e nei secoli successivi
Nel Medioevo questo luogo fantastico è descritto nel poemetto Unibos (X secolo), ma soltanto ne Li fabliau de Coquigne (XIII secolo) comincia ad essere indicato con questo nome: Cuccagna. Pochi decenni dopo, è Boccaccio a darne una descrizione nella terza novella dell’ottava giornata del Decameron: si tratta del paese di Bengodi, dove «si legano le vigne con le salsicce, ed avevasi un’oca a denaio ed un papero giunta; ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi».
Il Paese di Cuccagna appare poi in tante altre opere letterarie. Tanto per elencarne alcune: Historia nuova della città di Cuccagna (fine Quattrocento) di Alessandro da Siena; La nave dei folli (1494) di Sebastian Brant; il Baldus (1517) di Teofilo Folengo; l’anonima Storia di Capriano contadino (1518); La terra de Jauja (XVI secolo) di Lope de Rueda; Das Schlaraffenland (1530) di Hans Sachs; l’anonimo Il discepolo di Pantagruele (1538); Il cane di Diogene (1689) di Francesco Fulvio Frugoni; Le Roy de Cocagne (1719) di Marc-Antoine Le Grand; il Paese della Cuccagna (1750) di Carlo Goldoni; Oridegno, o sia la Cuccagna conquistata (1759) di Antonio Bianchi; e Trionfo di Cuccagna (XVIII secolo) di Martine Boiteux.
Anche opere non propriamente di fantasia, ma che avevano piuttosto un carattere saggistico, si spingono a descrivere Cuccagna. Per esempio, nel Cinquecento, Tommaso Garzoni ne parla nella Piazza universale di tutte le professioni e i mestieri, come di un’invenzione dei viaggiatori per abbindolare i creduloni con i loro racconti di viaggio. E anche nel Seicento, Francesco De Lemene, nel poema burlesco Della discendenza e nobiltà dei maccaroni, sostiene la sua ispirazione narrativa, invocando la Musa che è impegnata a cucinare ghiottoneria proprio nel paese di Cuccagna. Sempre al Seicento risale La presa di Sanmiato di Ippolito Neri, un poema eroicomico infarcito di eventi e luoghi immaginari, tra i quali non potevano mancare Cuccagna e le sue delizie.

Il paese di Cuccagna
Dall’Ottocento in avanti
Dall’Ottocento in avanti, il fantastico luogo s’ammanta anche di sfumature romantiche, come nel Libro dei Canti di Heinrich Heine, che compone una fantasia burlesca per celebrare l’abbondanza del posto, tale da far superare al poeta il senso stesso della limitatezza umana. Una Cuccagna tutta carnevalesca è quella che appare nelle fiabe dei Fratelli Grimm (1812-22). E Cuccagna è citata anche nell’insospettabile cornice de I promessi sposi di Manzoni: Renzo, stremato dalla fame, vede sul piedistallo di una colonna «certe cose sparse, che certamente non eran ciottoli, e se fossero state sul banco d’un fornaio, non si sarebbe esitato un momento a chiamarle pani. Ma Renzo non ardiva creder così presto a’ suoi occhi; perché, diamine! non era luogo da pani quello. — Vediamo un po’ che affare è questo — disse ancora tra sé; andò verso la colonna, si chinò, ne raccolse uno: era veramente pan tondo, bianchissimo, di quelli che Renzo non era solito mangiarne che nelle solennità. — È pane davvero! — disse ad alta voce; tanta era la sua maraviglia: — così lo seminano in questo paese? In quest’anno? e non si scomodano neppure per raccoglierlo, quando cade? che sia il paese di cuccagna questo?».
Anche nel romanzo Oblomov (1859), Gončarov descrive una città immaginaria – Oblomovka – che viene visitata, benché soltanto in sogno, dal protagonista. Anche qui, come nella Cuccagna occidentale, non esistono né sofferenza né morte, e la vita scorre serenamente in armonia con la natura e nell’abbondanza di ogni bene.
Infine, una particolare declinazione del motivo del paese di Cuccagna si trova ne Le avventure di Pinocchio (1883), dove Collodi narra del Paese dei Balocchi, che, pur conservando i tratti fantastici della tradizione, è governato da una severa legge del contrappasso, in forza della quale i ragazzi svogliati vengono trasformati in asini.
Più realistico è Il paese di Cuccagna (1890) di Matilde Serao: Cuccagna è Napoli, la cui atmosfera giocosamente caotica è animata dalle passioni e dalle tradizioni dei suoi abitanti. Più cupo è invece Nel paese di Cuccagna (1900) di Heinrich Mann dove il paese è individuato diventa il palazzo dell’amorale banchiere di Turckheimer, rifugio dalla corruzione della città di Berlino. Infine nel 1919 esce il romanzo Jurgen di James Branch Cabell: qui si torna ad una descrizione più tradizionale del paese di Cuccagna, che diventa occasione per riflettere sulla finitezza dell’uomo rispetto al fluire del tempo e all’immensità dello spazio.
Il Paese di Cuccagna descritto da Mariano di Patrica
Uno dei testi più interessanti è intitolato Capitolo di Cuccagna e venne stampato a Siena nel 1581 (edizione della quale sopravvivono due esemplari: uno conservato appunto alla Comunale di Siena e uno all’Alessandrina di Roma; un terzo esemplare si trova invece alla Marciana di Venezia). Proprio quell’edizione attribuisce l’opera ad un misteriosissimo Mariano de Patrica (cittadina in provincia di Frosinone), definito “improvisatore”, il cui nome d’arte era Tocadiglia, e del quale non abbiamo altre informazioni biografiche. Benché non certa, tuttavia l’attribuzione del giocoso e iperbolico poemetto giullaresco, che racconta «le maravigliose cose che sono in quel paese, dove chi più dorme più guadagna, e a chi parla di lavorare li sono rotte le braccia», sembra avvalorata dalla lingua dell’opera, genericamente ascrivibile all’Italia centrale.
Come abbiamo detto prima, la realtà immaginata di una terra dell’abbondanza priva della fatica del lavoro affiora in numerose culture antiche e altomedievali. Una delle prime manifestazioni letterarie del termine “cuccagna” compare in un componimento dei Carmina Burana (precisamente il n. 222), probabilmente composto tra fra 1162 e 1164. In quel caso il testo – che cita l’esistenza di un abbas Cucaniensis, figura molto vicina agli abati burleschi delle teatrali feste dei folli – non racconta un viaggio verso un paese paradisiaco, ma si riferisce al gioco d’azzardo in una taverna, ad un profitto facile e veloce. Ed in effetti, a ben vedere – e con il supporto anche dell’etimologia dichiarata da alcuni dizionari alla voce Cocaigne – il paese di Cuccagna è il luogo dove provvidenzialmente si ottiene un grande guadagno in termini materiali, senza compiere alcuno sforzo né fisico né mentale, proprio come avviene nel gioco d’azzardo.
E al gioco dovrebbe riferirsi anche il soprannome di Mariano di Patrica: nel 1526 Gerolamo Cardano pubblica il Liber de ludo aleae, nel quale, tra gli altri giochi, descrive il “tocadiglium”, sostanzialmente un gioco di tessere basato su fortuna e destrezza.
L’edizione senese definisce Mariano “improvvisatore”: era cioè uno di quei poeti musicisti – probabilmente suonava il liuto – figli del complesso intreccio di tradizione colta e popolare, che si ispirava al volgo per cantare i suoi versi ad cytharam. Egli mette su carta un componimento in terzine, nel quale recupera temi ed immagini tradizionali, proponendo, nella descrizione del paese di Cuccagna, un luogo lontano di perenne festa, dove non esistono differenze sociali o dispiaceri, né lotte né contese.

Cartina di Cuccagna
Da Cuccagna al Carnevale: idealità, utopia, rivoluzione, anarchia?
Provate ad immaginare: siamo in una festa di piazza, e questo poeta-giocatore d’azzardo, armato di liuto intona il suo poema, descrivendo il suo viaggio verso la vita anarchica di Cuccagna, dove c’è un’eterna primavera e le donne sono bellissime, e lavorare è inutile perché tutto quel che serve si trova in abbondanza. Infine, Mariano si congeda dal suo pubblico in modo “realistico”: il protagonista del viaggio si avventura in una grotta che gli si rinchiude alle spalle ed è costretto al ritorno nel mondo di tutti i giorni, riproponendosi però di tornare a Cuccagna al più presto.
Come è chiaro, Cuccagna – con i suoi confini, le sue geografie, le sue ricchezze – assume sfumature differenti a seconda dell’epoca, della cultura e del luogo in cui ne viene declinata la storia. Mariano da Patrica, nel comporre il Capitolo di Cuccagna, pur recuperando un bagaglio di immagini tradizionali, lo descrive come un luogo “esagerato”, chiaramente separato dal mondo reale (ma sostanzialmente slegato anche dalla presenza divina), del quale anzi costituisce un’inversione valoriale. Insomma un luogo onirico ed utopico, fatto di natura immaginaria e felicità perenne, che riprende le suggestioni dell’Età dell’Oro e dei Campi Elisi degli antichi e della loro traduzione in chiave cristiana nel Paradiso terrestre, ma catapultandole in uno scenario molto materiale e tangibile, legato al cibo e quindi come antidoto ad un problema di fondo di quel tempo: la fame.
Con questa considerazione fa tutt’uno anche la progressiva sovrapposizione dell’idea del Paese di Cuccagna con i festeggiamenti di Carnevale. D’altronde sono decenni in cui, minacciata anche dalle ricorrenti e sempre più gravi carestie, la gente puntava alla propria sopravvivenza, rifugiandosi anche in fatati mondi da sogno.
Il modello sociale del paese di Cuccagna non è un’idealizzazione dell’ordinamento sociale e politico di una città vera – come avviene nella letteratura utopistica (o distopica) – bensì la negazione di ogni ordinamento in nome di un’anarchia fondata sulla beatitudine garantita dall’abbondanza di ogni delizia e di ogni piacere. Questo topos si diffonde massimamente in un momento storico in cui rigidissime erano le regole ecclesiastiche sul digiuno e sul richiamo alla penitenza e all’astensione dalle carni e dal cibo “imposte” al popolo sotto la minaccia di castighi divini (la qual cosa spiega l’assenza di qualsivoglia presenza divina nel Paese di Cuccagna di Mariano).
Mariano da Patrica e Venezia
La storia del Paese di Cuccagna, nella versione di Mariano da Patrica ebbe un particolare successo tra i mercanti di Venezia e delle altre (poche) realtà cittadine dove la società aveva una struttura più liberale (per esempio Faenza e Rimini). D’altronde, non si trascuri lo status di città “d’acqua” di Venezia: il mondo di Mariano da Patrica è “progettato” con un significato acquatico, permeato dal mito di Melusina, ed è infatti attraversato da fonti, corsi d’acqua, giardini, dove il corpo può liberarsi dal potere e ristorarsi in un clima di sogno e di “cortesia”.
Le immagini della Cuccagna di Mariano da Venezia si diffondono anche a Ferrara e a Mantova, dando inizio all’ideazione delle città utopiche, che troverà pieno sviluppo nel Settecento e nell’Ottocento. Non a caso in queste città si sviluppano motivi “locali” del tema di Cuccagna. A Ferrara si diffonde El vanto de la cortegiana ferrarese (stampata a Venezia nel 1538).
La Cuccagna del Lazzari e la caduta della Serenissima
Tuttavia, al termine del secolo dei Lumi, a Venezia, il paese immaginato e descritto da Mariano trova un’altra declinazione. Nel 1797, durante il concitato periodo successivo alla caduta della Serenissima, veniva pubblicata in un’anonima bottega editoriale veneziana una canzonetta: La Cuccagna «del cittadino Giuseppe Lazzari» (la cui identità, malgrado i tentativi degli studiosi, resta avvolta da un inaccessibile manto di mistero).
Al paese sostanzialmente privo di potere civile (ed ecclesiastico) immaginato da Mariano, il Lazzari sostituisce il disegno di un nuovo ordine socioeconomico per la città veneta, scaturente dalla rivoluzione che aveva dato a Venezia un nuovo governo municipale. La Rivoluzione Francese del 1789 aveva influenzato il clima politico tanto veneziano quanto di tutto il settentrione italiano. Del resto, fin dalla metà del Settecento, Venezia aveva conosciuto una serie di trasformazioni sociali: l’aristocrazia, che deteneva il monopolio del governo pubblico e della vita politica, si era indebolita ed impoverita, perdendo così anche in autorevolezza e autorità. La qual cosa favorì il proliferare di sentimenti rivoluzionari tra i borghesi, che volevano partecipare attivamente alla vita politica della Serenissima Repubblica veneziana.
Il Lazzari, rinverdendo il “mito” del paese di Cuccagna, era tra coloro favorevoli al cambio di regime portato in ogni dove da Napoleone (negli stessi anni anche Ugo Foscolo si lasciò ammaliare da Napoleone liberatore). Quindi, Cuccagna diventa una metafora per descrivere una Venezia nella quale tutti possano vivere liberi ed eguali, tutti “cittadini” pari tra loro, essendo aboliti i privilegi aristocratici ed ecclesiastici.
Cuccagna diventa Venezia regolata da norme per calmierare i prezzi per il cibo, e renderli più equi, in modo da evitare speculazioni commerciali: alla festa della Cuccagna si immagina che tutti abbiano la possibilità di ottenere quel poco che è meglio di nulla, ma non di più.
Utopico era il paese di Cuccagna di Mariano, utopica si rivelò anche la Venezia napoleonica e rivoluzionaria. Nelle speranze e fantasie di Liberati (e di tanti come lui) la venuta di Napoleone avrebbe dovuto portare la cuccagna, vale a dire in termini politici la libertà e l’uguaglianza «come là in Franza» (v. 22), ma soprattutto la «Libertà bella tanto bramada» (vv. 25-26), che è subordinata ad un’equità economica di stampo protosocialista.
Come andò è noto: il 17 ottobre 1797, con la sottoscrizione del trattato di Campoformio, lo stesso liberatore Napoleone, siglava la fine della breve esperienza della Municipalità, consegnando Venezia agli austriaci e tradendo ogni speranza di libertà.
Vincenzo Ruggiero Perrino

