La cittadina di Acuto nel frusinate e le sue chiese
La cittadina di Acuto venne fondata nel V secolo da abitanti di Anagni fuggiti da un’invasione, e stanziatisi in un sito dove esisteva già un piccolo nucleo urbano. Le prime fonti certe risalgono però al 1051, anno in cui è registrata l’esistenza di un Castrum Acuti, roccaforte nei pressi della cittadina “dello schiaffo”. La rocca fu dominata da vari signorotti locali e dai vescovi di Anagni in alternanza, fino alla fine del XIV secolo, quando tornò definitivamente in mano ai vescovi. Infatti, dal 1400 in avanti, la storia della città è intimamente intrecciata con quella di Anagni (e del papato), tanto che gli abitanti di Acuto ottennero la cittadinanza anagnina nel 1478.

Acuto (Fr), Panorama
Testimonianze di questo legame e della vitalità culturale che ne discese sono rintracciabili anche nella ricchezza figurativa di alcune chiese come la Chiesa di san Sebastiano, che si trova fuori le mura e il cui nucleo originario risale al XIII secolo. All’epoca questa chiesa doveva accogliere i pellegrini durante i giubilei, oppure i cittadini in caso di epidemie. Non a caso, proprio per questo ruolo di ricovero per scampare ad infezioni e malattie, l’intitolazione venne estesa anche a san Rocco. Tra il 1528 e il 1550, il vescovo Torelli commissionò un pregevolissimo ciclo di affreschi – con immagini di san Girolamo, dell’Annunciazione, e di san Michele Arcangelo – realizzati proprio come ringraziamento (a guisa di ex-voto) per la protezione che i due santi avevano garantito agli acutini durante l’infezione di peste verificatasi dopo il Sacco di Roma. È interessante notare che sullo sfondo dell’affresco ritraente san Michele, c’è il profilo di Acuto, così come doveva apparire nel Cinquecento.

Acuto (Fr), Chiesa dei santi Sebastiano e Rocco
Anche la Collegiata di Santa Maria Assunta – che il vescovo dell’epoca, Lomellini, definì «la più insigne di tutta la diocesi» – fu oggetto, nella seconda metà del Cinquecento, di un importante lavoro di ampliamento della struttura originaria dell’XI secolo e di riordinamento dell’architettura e degli affreschi.
Fra’ Giacomo Affinati di Acuto, famoso teologo e predicatore
Al XVI secolo deve farsi risalire anche la figura di un predicatore domenicano, fra’ Giacomo Affinati di Acuto, autore di alcune opere dialogiche di argomento teologico. Fra’ Giacomo era nato, grosso modo, intorno al 1560 da Loreto e Ateria Giannelli. Documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Frosinone ne attestano lo status di eminente e autorevole personaggio della società intellettuale della cittadina di nascita. La sua ordinazione di domenicano avvenne probabilmente presso il convento di san Giacomo di Anagni.
Legò il suo nome a una serie di manuali di predicazione, che dovettero avere un buon successo editoriale, se consideriamo che vennero più volte ristampati e addirittura tradotti in francese e in inglese. Il suo correligionario, Padre Echard, autore di un’opera sugli scrittori domenicani alla fine del Seicento, lo annovera tra i filosofi e i teologi di più alto valore accademico.
La sua prima opera a stampa giunta fino a noi è Panomphea (apparsa a Brescia nel 1597), un’opera in cui afferma la necessità di ricercare l’autentica verità (espressa in termini teologico/morali) superando l’ingannevole facciata dell’apparenza: un tema particolarmente vicino (benché declinato in senso diametralmente opposto) a quell’ideale di appariscenza di gusto tipicamente barocco.
Il dialogo Il muto che parla pubblicato a Venezia nel 1601
Su fra’ Giacomo vi è, in primis, da riferire una notizia curiosa. In un discorso recitato presso l’Accademia Tiberina di Roma il 13 marzo 1843, Domenico Zanelli, trattando del sordomutismo, riferisce in una nota: «Il barone Degerando ricorda un Affinate, italiano, il quale dicesi, così egli, che pubblicasse un trattato sulla maniera di far parlare i sordo-muti. Dopo molte ricerche ho potuto trovare quest’opera, la quale venne stampata in Venezia nel 1601; ma non vi ho trovato una parola sui sordo-muti. Essa è esclusivamente ascetica, e porta questo titolo Il muto che parla, dialogo, ove si tratta delle eccellenze e dei difetti della lingua umana, e si spiegano più di 190 concetti scritturali sopra il silenzio, data in luce da fra Giacomo Affinati di Acuto romano».
Infatti, questo dialogo Il muto che parla, non ha nulla a che vedere con la condizione di invalidità dei sordomuti, bensì è un’opera nella quale il frate acutino spiega i concetti evangelici sul silenzio. Il frontespizio dell’opera, non a caso, precisa che si tratta di un’opera «molto utile a chi desidera di favellare rettamente senz’essere biasimato». Il dialogo è preceduto da una lettera dedicatoria alla marchesa di Gibello Donna Bianca Rangona, e, soprattutto da una introduzione nella quale il frate si rivolge direttamente ai lettori. In essa frate Giacomo si esprime in tutto il suo afflato spirituale di domenicano, confidando «quanto io sia desideroso di giovar’al prossimo per non esser Arbore infruttuoso, piantato nell’amena terra di Santa Chiesa, però con l’occasione che un gentilissimo spirito, ramaricato d’infiniti travagli, tanto, che desiderava d’esser’al Mondo, se possibil fosse; e per sollevarlo da suoi gravosi affanni, quanto bastasse la debolezza delle forze mie, mi posi à comporre il Monte Santo delle Tribulationi, & il Muto che parla, in lode del Silentio».
Altre opere di fra’ Giacomo pubblicate a Venezia e a Napoli
Fra’ Giacomo utilizzò frequentemente la forma del dialogo per i suoi scritti. Un dialogo dedicato alle cose
“consecrate”, venne pubblicato sempre a Venezia nel 1602. Si tratta de Il mondo al rovescio e sossopra, diviso in quattro dialoghi.
Altro esempio: Il monte santo della tribulazione, pubblicato nel 1602. Il contenuto del dialogo è di straordinaria modernità. Infatti, benché scritto più di quattro secoli fa, affronta con grande profondità il tema dell’insoddisfazione dell’uomo e della “tribulazione” che da essa ne discende.
Il frate scrive nella dedica al signor Giovan Maria Carrafino: «L’huomo è tanto per natura incontentabile in questo mondo […] ch’egli non può in questa vita haver l’animo pago; ma come quello c’hà simulacro d’Iddio, solo il Sommo Fattore può farlo contento. Si scopre tanto più chiara questa celeste dottrina, quanto più quelli che dal commun parere de gli huomini sono reputati felici, essi nondimeno si lamentan sempre, e riempiono l’aere de cuocenti sospiri, di maniera che egli è più vero quel che disse il Prencipe de tribulati Iob, che la vita dell’huomo è una continua guerra mentre vive sopra terra: e quando mancan gli nemici esterni, insorgono gli interni, tanto più crudeli e dannosi, quanto più son vicini, & all’offesa più pronti, fatti anche insolenti per essere da noi morbidamente nodriti».
In altre opere, invece, egli affrontò l’argomento delle grandezze, virtù e dei singolari privilegi della Madonna. Per esempio, Il giardino fiorito della Gran Signora reina dell’universo (dato alle stampe a Napoli nel 1614), opera indirizzata ai teologi e ai predicatori, ma anche alle persone semplici che desiderano esercitarsi nella devozione per la Gran Madre di Dio. Oppure: La Gran Signora, anch’essa pubblicata a Napoli lo stesso anno. Naturalmente l’attenzione alla devozione mariana da parte di un predicatore domenicano non sorprende: proprio i domenicani erano stati tra i più solleciti divulgatori presso il popolo della pratica del Santo Rosario, fin dalla metà del Quattrocento.
Fra’ Giacomo Affinati a Padova Priore del convento di Santa Maria delle Grazie
Dal frontespizio dell’edizione a stampa de Il monte santo della tribulazione – che, ricordiamo, apparve nel 1602 – apprendiamo che nel frattempo l’autore era diventato priore del convento di Santa Maria delle Grazie a Padova (cittadina nella quale rimase poi fino alla morte, avvenuta intorno al 1615).
I domenicani veneti avevano un convento nel Bassanello, che però venne dstrutto a seguito della guerra di Cambrai (1509), allorché si rese necessario procedere ad una serie di demolizioni forzose al fine di erigere una nuova cinta muraria che difendesse Padova. Così, tre anni più tardi, Leone X accordò ai frati domenicani osservanti della congregazione lombarda il permesso di costruire un complesso conventuale nelle vicinanze di Prato della Valle, all’interno del quale trovasse posto anche una chiesa.

Padova, Chiesa di Santa Maria delle Grazie
La chiesa di Santa Maria delle Grazie venne progettata da Lorenzo da Bologna, e fu costruita in un lungo lasso di tempo (tra il 1531 e il 1585) ad opera dell’architetto Giovanni Maria Falconetto. Quest’ultimo fu un nome di particolare spicco della cultura padovana: suo è uno dei più interessanti spazi scenici (sorprendentemente rimasto inatto fino ad oggi), ossia la Loggia della villa di Alvise Corner (il nobile veneziano patrocinatore delle rappresentazioni di Angelo Beolco detto il Ruzante, e mecenate del gruppo degli Umanisti veneziani tra i quali s’annoverano Pietro Bembo e Daniele Barbaro), che può essere assunta come un punto di svolta della scenografica teatrale moderna.

Padova, Loggia e Odeo Cornaro
Ai principi del Settecento vennero cominciati dei lavori di ampliamento della chiesa, che tuttavia, per ragioni di ordine economico, non solo procedettero a rilento, ma vennero anche ridimensionati rispetto al disegno originario, in proporzione alla modesta comunità ivi insediata. Non a caso, la congregazione dei domenicani osservanti venne soppressa nel 1771. Infatti, il convento venne assegnato, l’anno dopo, alle Zitelle povere, per poi essere annesso agli Orfanotrofi Riuniti.
Oggi, proprio la chiesa – alla facciata affiancata da un campanile, segue un interno a navata unica ornata da marmi policromi e coro ligneo, nonché due belle statue marmoree, opera dello scultore padovano Giovanni Bonazza, di san Domenico e san Vincenzo Ferreri – dove fra’ Giacomo Affinati svolse il suo ufficio di priore resta l’unica traccia visibile dell’antico complesso conventuale.
Vincenzo Ruggiero Perrino

