Notevole sviluppo di Padova in ogni campo tra Sette – Ottocento

Sommario

Sfogliando i testi di vari autori e scrittori tra Sette-Ottocento, anche stranieri, balza presto agli occhi un notevole sviluppo della città di Padova sotto ogni punto di vista: urbanistico, monumentale, artigianale, protoindustriale, culturale e artistico. Quali siano state le cause di questo generale salto di qualità, queste possono riguardare movimenti culturali e iniziative singole come l’Illuminismo, la rivoluzione francese, le imposizioni e innovazioni napoleoniche, tra cui la capitolazione dell’antica Repubblica di Venezia, la presenza di personaggi geniali sia all’università sia nel contesto civile. In ogni caso un periodo storico fecondo per la città di Antenore, passata nel frattempo tra varie occupazioni e regimi: dalla Serenissima ai francesi, dai francesi agli austriaci con il Congresso di Vienna, qui rimasti sino all’unità nazionale nel 1866.

Con questa nuova collocazione, savoiarda, Padova avrà una nuova storia, ma i rivolgimenti avvenuti in passato le avevano procurato i mezzi per diventare una città moderna e importante non solo nel paese.

Il rinnovamento di Padova tra settecento e ottocento

Ippolito Nievo

Scartabellando lavori e documenti di numerosi e autorevoli scrittori ed eruditi tra Sette-Ottocento, non si può non rilevare che per la città di Padova si stava avviando un processo di rinnovamento come mai forse si era verificato in passato (a parte il glorioso Trecento artistico). Molto utili in questo senso il capolavoro del mazziniano Ippolito Nievo (tra l’altro nato a Padova), Le Confessioni di un italiano, pubblicato postumo nel 1867, poi le Notizie giornaliere dell’erudito abate Giuseppe Gennari, che si proclama inebriato per la gloriosa ristrutturazione del Prato della Valle, operata dal patrizio veneziano Andrea Memmo, Provveditore straordinario per la città nel 1775-76, e pure la costruzione del nuovo, imponente Ospedale da parte di un altro veneziano, il vescovo Nicolò Antonio Giustiniani (1712-1795). Ancora oggi questo è chiamato “il Giustinianeo”.

Il ruolo dell’Università nello sviluppo della città

Giuseppe Toaldo

L’entusiasmo del Gennari si estendeva anche alle novità inerenti l’Università (dove operavano l’eclettico Simone Stratico, espertissimo nella cattedra di architettura e costruzioni navali, Pietro Arduino, innovatore in campo agronomico, e l’abate Giuseppe Toaldo, che inaugurò la cattedra di Astronomia e Meteore, per citare i nomi più illustri); in più c’era stata la trasformazione dell’Accademia di Scienze, Lettere e Arti, per l’incremento culturale della città, di cui il Gennari fu per lunghi anni segretario. Anche lui plaudeva alla profonda trasformazione del Prato della Valle: “per render maggiormente ameno questo centro che in ogni stagione dell’anno attira la gente e particolarmente allorché a cagione delle fiere e del tempo delle villeggiature, e persone in moto, e in una maggior libertà corrono ove si vede un maggior concorso a cagione de’ spettacoli e delle delizie”.

I salotti Papafava e Capodilista

Padova, Teatro Verdi

Nella seconda metà del Settecento avevano fama due salotti esclusivi che attiravano gli intellettuali più in vista, specie nel decennio 1770-80, il primo aperto da Arpalice Papafava, assai ardito e progressista, tanto da esser considerato riparo di giacobini, l’altro da Francesca Capodilista, che adunava spiriti brillanti anche dell’Accademia, tra cui Melchiorre Cesarotti e l’abate Alberto Fortis. Dalla prima metà del secolo si erano diffuse anche delle primitive logge massoniche (per breve frequentate anche da Casanova), chiuse con decreto della Repubblica nel 1785 in tutto lo Stato.

Tornando al Gennari, questi si mostrava orgoglioso delle molte novità apparse via via in città, tanto da scrivere a un suo corrispondente siciliano: “Anche le strade si sono accomodate con gran dispendio [non erano più quelle di cui si lagnava il Petrarca]. Non parlo d’altre spese che si son fatte nelle case de’ privati, nelle chiese etc. Bastivi sapere che quattro volte l’anno si apre il teatro in questa città: nella primavera e nello autunno quello del marchese Obizzi (oggi mezzo demolito), ora ingrandito e abbellito, e nel carnevale e nel mese di giugno il Teatro Nuovo (oggi il Verdi). E poi dicono che la nostra città è miserabile e spopolata: lasciate che dicano a loro posta, e voi intanto chiederete se in Sicilia si fabbricano tante pezze di panno quante ogni anno escono dai nostri telai; e se sanno quanto denaro straniero recano nel nostro seno le fettucce che qui si fanno, o se il Seminario di Palermo conta duecentosessata alunni come il nostro”.

Melchiorre Cesarotti

Busto di Melchiorre Cesarotti

Figura eminente e a sé stante era quella del letterato e filologo Melchiorre Cesarotti, celebre in tutta Europa per la sua brillante traduzione in endecasillabi dei Poemi di Ossian (ma non solo), opere epico-liriche in tinte romantiche dello scozzese James Macpherson, che avrebbe voluto esaltare l’epica del suo popolo ricreando liberamente versi antichi. Questi canti ossianici presero piede in tutta Europa e la stessa produzione del padovano contava di ben quaranta volumi pubblicati in Toscana nei primi anni dell’Ottocento. Non si può nascondere che Cesarotti simpatizzasse per le nuove idee d’oltralpe, e questo può spiegare anche la sua fortuna editoriale oltre che rappresentare la nuova cultura del tempo. L’abate bassanese Giuseppe Barbieri (già monaco benedettino a Praglia), suo corrispondente e successore all’Università, divenne pure famoso come filologo e oratore, ma non al pari del maestro. Nella bella villa del Cesarotti a Selvazzano, suo buon e amato ritiro, passarono tra gli altri il Foscolo, il Monti, madame De Stael, e la salottiera Teotochi Albrizzi, tanto che l’ospitante poteva dire che “i bagni di Abano e Monteortone si fosser qui trasferiti”. Da ricordare che davanti alla sua villa si era sparato per una delusione uno studente friulano di nome Ortis, reso poi protagonista del famoso romanzo “autobiografico” del Foscolo, Le ultime lettere di Jacopo Ortis, criticato dal nume patavino.

Goethe in tour a Padova

Goethe

È doveroso citare ancora il grande poeta e naturalista tedesco Wolfang Goethe, che con il suo Viaggio in Italia appare il più rappresentativo, tra gli altri, turista erudito del tempo. Proveniente da Vicenza il 26 settembre 1786, il grande poeta tedesco ammira la città  per più motivi: vi trova sorprendente l’editoria (La Tipografia del Seminario esisteva da decenni tuttavia in declino ma non era l’unica), quindi la cortesia dei suoi cittadini; ovviamente l’Università, che già considerava angusta per i numerosi studenti, italiani e stranieri; giudicava grazioso e gaio l’Orto botanico da vero naturalista, soprattutto per sue piante esotiche. Apprezzava con attenzione le statue in pietra di Nanto del Prato della Valle con le sue iscrizioni in latino, le antiche pitture del Mantegna nella chiesa degli Eremitani; il Salone del Palazzo della Ragione (che diverrà negli anni Venti dell’Ottocento il primo Museo di Padova, come vedremo), la basilica di Santa Giustina per la sua grandiosità. Ripartì per Venezia con il famoso Burchiello presso Porta Venezia, trainato da cavalli lungo gli argini del Brenta e gestito fino alla caduta della Serenissima dai barcaioli del suggestivo rione Portello.

Andrea Memmo e la sistemazione del Prato della Valle

Andrea Memmo

Ritornando ad Andrea Memmo, sappiamo che con l’aiuto della Repubblica e dei mercanti padovani aveva trasformato il fangoso Prato della Valle creando al centro un’isola, delimitata da un canale ellittico con doppia fila di statue di personaggi riguardanti la storia di Padova. Ma la nuova magnifica grande piazza non era la sola idea fissa del Provveditore veneziano: voleva anche una città porticata che rendesse il traffico dei veicoli ben differente da quello pedonale, imitando alquanto la consorella Bologna. Sua inoltre l’idea di spostare in Prato l’antica Fiera del Santo, che nel primo dopoguerra diverrà la prima Fiera franca internazionale (1919). Come accennato, nel 1825 la città inaugurò il suo primo Museo Civico in Salone e nelle logge esterne con reperti e lapidi antiche accumulate nel tempo:  determinante allora l’intervento dell’abate Giuseppe Furlanetto, un lapidario visitato per l’occasione anche dall’imperatore Francesco I d’Austria. Quest’anno il Comune ha voluto commemorare i duecento anni di vita del suo Museo, oggi ben sistemato agli Eremitani dopo esser passato dagli spazi angusti di un chiostro del Santo.

La presenza a Padova del grande Belzoni

G. B. Belzoni

A questa risoluzione contribuì sicuramente la presenza in Padova (inverno 1819-1820) del grande Giovanni Battista Belzoni, che aveva donato alla città natale due statue egizie in diorite della dea leontocefala  Sekmet. Aveva anche indicato la collocazione: accanto alla porta orientale del Salone, dove rimasero fino al 1982, quando furono trasferite nel nuovo Museo archeologico agli Eremitani. Padova ricordò il suo straordinario esploratore e neoegittologo con un medaglione marmoreo, opera dell’attivo scultore padovano allievo del Canova, Rinaldo Rinaldi, altorilievo posto proprio sopra la porta orientale sempre in Salone. L’inaugurazione avvenne il due luglio 1827 con una lunga e documentata orazione, poi stampata, dell’abate Giuseppe Barbieri, seguace ed erede di Melchiorre Cesarotti.

Gianluigi Peretti

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