Giotto e Frate Alberto da Padova

Abstract

Che alle spalle della complessa trama degli affreschi di Giotto nella Basilica del Santo e nella Cappella degli Scrovegni di Padova ci sia una profonda conoscenza di tipo teologico da parte del pittore non è da dubitare ma una ricerca sulle fonti di questa conoscenza, che non siano state genericamente i libri sacri, finora mancava. A colmare questo vuoto abbiamo ora a disposizione le ricerche di Giuliano Pisani sintetizzate in questo articolo; una ricerca di tipo indiziario, in mancanza di documenti probanti, che ci porta alla scoperta delle frequentazioni di Giotto con i più colti fra i frati minori conventuali di Assisi e di Padova che furono i suoi principali committenti. Emerge quindi la figura di fra’ Antonio da Padova, un teologo contemporaneo coltissimo del convento degli agostiniani con sede agli Eremitani di cui Pisani traccia un breve profilo come probabile ispiratore degli affreschi che Enrico Scrovegni commissionò a Giotto.

There’s no doubt that behind the complex structure of Giotto’s frescoes in the Basilica del Santo and in the Scrovegni Chapel in Padua there is a profound theological knowledge by the painter, but a research on the sources of this knowledge, apart from generic researches on sacred books, was actually missing. To fill this void we have now available the research of Giuliano Pisani which is summarized in this article; a circumstantial research, in the absence of conclusive documents, which leads us to discover Giotto’s frequent visits to the most educated of the minor conventual friars of Assisi and Padua who were his main patrons. Therefore emerges the figure of Brother Alberto da Padova, a highly educated contemporary theologian of the convent of the Augustinians, located at the Eremitani, whom Pisani draws a brief profile of, as a probable inspirer of the frescoes that Enrico Scrovegni commissioned from Giotto.

La Cappella degli Scrovegni

Nella Cappella degli Scrovegni Giotto rivoluziona il linguaggio della pittura umanizzando il divino, introducendo il realismo, evidenziando sentimenti e passioni nei volti e nei gesti, inserendo la prospettiva spaziale riferita ai piani e alla profondità, aprendo al moderno con cromatismi innovativi e sapienza grafica, scolpendo con la luce e con il colore. Quando inizia l’impresa, verosimilmente nel 1302, ha trentacinque anni: ha lavorato a Firenze e a Roma, ma soprattutto ad Assisi, a Rimini e nella stessa Padova. dove ha da poco finito di affrescare la sala del Capitolo e la cappella delle Benedizioni nel complesso della basilica di Sant’Antonio. Tutte queste commissioni gli sono venute dai frati minori conventuali e si collegano alla celebrazione di san Francesco. La decorazione della cappella gli è commissionata, invece, da un privato, Enrico Scrovegni, un ricchissimo banchiere padovano, che il 6 febbraio 1300 aveva acquistato l’area dell’antica arena romana di Padova con l’intento di costruirvi un sontuoso palazzo, scelleratamente demolito nel 1827, collegato a una cappella destinata a fungere da oratorio privato e da tomba sua e di sua moglie.

La prima dedicazione dello spazio sacro, che ampliava una cappellina preesistente, avvenne il 25 marzo 1303, festa dell’Annunciazione; la seconda due anni dopo, il 25 marzo 1305: in 625 giornate di lavoro (dove per giornata si intende la porzione “a fresco” dipinta prima che la calce si secchi), si situa l’intervento di Giotto e dei suoi collaboratori. Il programma, in collegamento con il primo Giubileo della storia, indetto da Bonifacio VIII il 22 febbraio 1300, illustra la storia della salvezza, ma la complessità teologica, i numerosi elementi simbolici, le ‘novità’ concettuali e qualche arditezza, svelano la presenza di un teologo coltissimo, che opera in stretta sintonia con Giotto. Nella scena della dedicazione l’artista pone simbolicamente il modellino della Cappella sulla spalla di un religioso, per indicare che è lui il responsabile dell’ideazione del programma.

Giotto ne dà un ritratto fedele, come fa anche con il padrone di casa, ma nessun documento ce ne restituisce l’identità. Possiamo però ricavarne alcuni preziosi indizi: dalla lunga cotta bianca spuntano le tracce di un cappuccio nero con interno blu, particolare che collega il religioso alla regola di sant’Agostino; i capelli castani, con lievi sfumature verso il biondo (anche se è pericoloso calcolare l’età dal colore dei capelli) e l’assenza del solco labio-mentale, che negli uomini si forma generalmente dopo i quarant’anni, fanno propendere per un uomo sui trentacinque, trentasei anni.

Le rughe ai lati degli occhi e sulla fronte sono di espressione: Giotto evidenzia la trepidazione per il giudizio della Madonna, di san Giovanni e di Caterina d’Alessandria, patrona dei teologi, sul “contenuto” della Cappella, di cui ha l’onere di reggere il peso. Non dobbiamo cercare lontano: contermine alla proprietà dello Scrovegni sorgeva da più di trent’anni il monastero degli Eremitani, ordine religioso agostiniano, che ospitava un’importante scuola teologica. Logica e convenienza suggeriscono che Enrico Scrovegni si rivolgesse al priore per assicurarsi la collaborazione di un programmatore teologico, richiesta andata a buon fine, come prova il rigoroso riferimento degli affreschi alla dottrina agostiniana.

L’esempio più evidente è dato dal quarto registro, quello con i monocromi dei vizi e delle virtù. I vizi hanno questa sequenza: Stoltezza, Incostanza, Ira, Ingiustizia, Infedeltà, Invidia, Disperazione (solo due, Ira e Invidia, rientrano dunque fra i sette vizi capitali stabiliti da Gregorio Magno nel 601 e ripresi, con lievi modifiche, da san Tommaso). Le sette virtù, le quattro cardinali e le tre teologali, presentano una sequenza inedita: Prudenza, Fortezza, Temperanza, Giustizia; Fede, Carità, Speranza. La dimostrazione da noi compiuta, fonti alla mano, che nella successione delle virtù Giotto segua uno schema agostiniano, ha aperto nuovi scenari e fatto cadere luoghi comuni inveterati, ma privi di attendibilità scientifica. Per capire a fondo il quarto registro si deve partire da un passo di sant’Agostino (De doctrina Christiana I 14, 13):

La Sapienza di Dio, nel curare l’uomo, gli offrì se stessa per guarirlo, se stessa come medico, se stessa come medicina. Ed essendo l’uomo caduto per un atto di superbia, si servì dell’umiltà per guarirlo. […].Corrotto l’animo di una donna, entrò nel mondo la malattia; un corpo di donna rimasto integro ci ha donato la salute. Allo stesso sistema dei contrari si riferisce il fatto che mediante l’esempio delle virtù vengono curati i nostri vizi.

Dio guarisce le anime praticando la medicina dei contrari. Il percorso del quarto registro muove dalla Stoltezza e, dopo un percorso a zigzag, approda alla Speranza: un vizio non sanato dalla terapia della virtù opposta impedisce di procedere e di poter sperare nella salvezza finale. Questa sequenza costituisce un unicum assoluto, come concezione e come iconografia. Qui Giotto esalta la sua creatività nel tradurre in immagini i concetti suggeriti dal teologo.

Sopra il monocromo della Speranza è dipinto sant’Agostino. Mantello nero sulla veste bianca, con una cuffietta sui bianchi capelli, il santo vescovo sta scrivendo su un elegante scrittoio ligneo. Due volumi sono aperti su un piano supplementare, sorretto da una colonnina ottagonale; sul primo si legge il testo di un’ Ave Maria.

AVE MARIA gra[tia] plena / dominus te/cum benedit/ta tu in mulie/ribus e bene/ dittus frut/tus ventris tui S[an]c[t]a Maria / ora per me / beneditta sia la vergene Maria / vel egredietur / virga de radi/ce Gesse flo/s de radice / eius ascen/dit beneditta / sia la vergene Maria / e laudato / deo e tutti…

La matrice agostiniana è anche nei dieci quadrilobi della parete nord, ciascuno dei quali prefigura l’episodio evangelico successivo: è il concetto agostiniano che «il Nuovo Testamento si cela nell’Antico e nel Nuovo l’Antico si svela» (Quaestionum in Heptateuchum libri septem 2, 73). Tra i quadrilobi più interessanti c’è Il serpente di bronzo: sulla sommità di una colonna si vede un drago color rame, con ali spiegate e bocca spalancata, mentre una piccola folla ne invoca l’aiuto levando verso di lui mani, gomiti e caviglie [fig. 6]. Il riferimento è a un episodio dell’Antico Testamento: durante la traversata del deserto, gli ebrei lamentavano i disagi del viaggio e «il popolo parlò contro Dio e contro Mosè». Il Signore mandò serpenti velenosi e molti morivano. Mosè pregò Dio di salvarli. Il Signore gli rispose: «Fa’ un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque, dopo essere stato morso, lo guarderà, resterà in vita». Mosè fece un serpente di rame e lo mise sopra l’asta; e se uno era morso da un serpente, guardando il serpente di rame, restava in vita» (Numeri 21,4). Il serpente a cui deve guardare il popolo d’Israele per salvarsi è la prefigurazione della missione provvidenziale e salvifica di Cristo. Scrive sant’Agostino nel suo Commento al Vangelo di Giovanni (12, 11): «Cristo prese su di sé la morte e la inchiodò alla croce, e così i mortali vengono liberati dalla morte. Il Signore ricorda ciò che in prefigurazione avvenne presso gli antichi: E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna. […]Che significa il serpente innalzato? La morte del Signore sulla croce. È stata prefigurata nel serpente, perché la morte proveniva dal serpente. Il morso del serpente è letale, la morte del Signore è vitale. Si volge lo sguardo al serpente, per debellare il serpente. […] Come coloro che volgevano lo sguardo a quel serpente non perivano per i morsi dei serpenti, così chi guarda con fede alla morte di Cristo, è guarito dai morsi dei peccati».

Nella scelta degli episodi evangelici e nella loro iconografia il Vangelo di riferimento è sempre quello di Giovanni, che più di ogni altro, per sant’Agostino, descrive «il mistero della divinità di Cristo, attingendolo dallo stesso petto del Signore sul quale nella cena gli fu consentito di reclinare il capo» (De consensu Evangelistarum I 4, 7).

Dicevamo che nel monastero degli Eremitani era attiva un’importante scuola agostiniana, con la presenza di maestri illustri, il più famoso dei quali era frate Alberto da Padova. Una serie di indizi ci ha fatto pensare a lui come al teologo ispiratore di Giotto.

Frate Alberto da Padova

Nato nel 1269, Alberto da Padova nel 1305 aveva circa trentasei anni. I contemporanei lo consideravano un novello san Paolo, tanta era la forza del suo eloquio. La sua presenza a Padova, negli anni in cui è concepito il programma della Cappella, è provata da due distinti atti, datati 24 gennaio 1299 e 6 gennaio 1301, in cui si registra un frater Albertus de Padua come membro a pieno titolo del Capitolo degli Eremitani. Un altro documento attesta che il 19 marzo 1316 frate Alberto da Padova era lector fratrum Heremitarum, cioè colui che commentava per i confratelli le Sacre Scritture. Nel 1318 è lettore e baccelliere nello studio generale agostiniano di Bologna e un anno dopo è documentato il suo passaggio alla Sorbona, la più importante università del tempo, dove assume il ruolo di magister theologiae. Morì nel 1328, probabilmente a Parigi.

Alberto da Padova ha lasciato molti scritti, con numerose edizioni a stampa in Europa e in Messico. Nel primo di tre tomi della Bibliotheca virginalis, un’edizione madrilena del 1648, in cui sono raccolte le più importanti omelie dedicate alla Vergine, Pedro de Alva y Astorga gli attribuisce il merito di aver introdotto nella Chiesa cattolica l’uso di iniziare le prediche con l’Ave Maria, il saluto angelico alla Madonna. Questa notizia conferisce particolare significato alla presenza di un’Ave Maria sul leggio di sant’Agostino.

Di grande importanza è un’omelia, il Sermo de Annunciatione, dove Alberto spiega ai pittori come si dovrebbe rappresentare Maria nella scena dell’Annunciazione: non in riposo o impegnata in qualche attività, ma assorta in uno stato contemplativo e nella meditazione sul messaggio che le è stato rivelato: così in effetti la rappresenta Giotto, con un’iconografia inedita, in ginocchio, le braccia conserte e un libro – segno di elezione – chiuso nella destra, mentre medita sul messaggio che l’arcangelo Gabriele le ha appena letto, come si deduce dal cartiglio srotolato.

Nella complessa orditura teologica della Cappella degli Scrovegni lo sguardo del pubblico che usciva dal portone principale si posava sugli orrori dell’Inferno, un esplicito avvertimento a seguire gli insegnamenti della Chiesa. Enrico Scrovegni, invece, rientrava nel suo palazzo passando per la porta di comunicazione interna, quella da cui entrano ed escono gli odierni visitatori. Sopra questa porta, dal lato interno, Giotto ha dipinto due tondi, avvolti da eleganti motivi fitomorfi.

In quello di sinistra appare una giovane donna dall’espressione sorridente, che ha una corona sul capo e tiene nella sinistra un libro chiuso, mentre con la destra accenna in direzione dell’uomo ritratto nell’altro tondo. In contrasto con questa atmosfera serena le fuoriescono dagli occhi due clave, che si allargano nello spazio in direzione opposta, formando un angolo di 180 gradi. La figura maschile sulla destra presenta i tratti tipici dell’arretratezza: corpetto di pelliccia annodato in vita, braccia nude, bocca spalancata, sguardo stupito, testa calva, un lungo bastone brandito con la destra e appoggiato sulla spalla. Il volto, di profilo, guarda verso la giovane donna sul lato opposto della sovrapporta. La funzione di queste immagini è legata alla porta d’uscita “privata” dalla Cappella. Di lì passava il padrone di casa per fare rientro nel palazzo e dunque è lui il destinatario del messaggio. Le clave che fuoriescono dagli occhi della giovane sono a nostro avviso figurazioni simboliche della vista.

Il meccanismo della visione

Il meccanismo della visione poggia su tre elementi: l’organo della vista, l’oggetto da vedere e il tramite tra l’uno e l’altro (l’aria). La vista, come le altre percezioni, era considerata in antico di natura tattile, basata cioè sul contatto con l’oggetto. Ci si chiedeva se la luce muovesse dall’occhio e andasse a colpire l’oggetto, o se al contrario fosse l’oggetto a emettere raggi luminosi in direzione dell’occhio. Nacquero varie scuole di pensiero e diverse teorie. Per il filosofo stoico Crisippo di Soli «nell’aria si forma un cono, che ha il vertice nell’occhio e la base nell’oggetto osservato: in tal modo ciò che si vede è trasmesso attraverso l’aria in tensione come per mezzo di un bastone» (Diogene Laerzio VII 157). Anche sant’Agostino condivide l’immagine tattile della vista, che muove incontro agli oggetti e li riconosce come se li toccasse con un bastone: la vista, scrive, è una sorta di bastone (quasi virga visus) che parte dall’occhio e raggiunge l’oggetto (De quantitate animae 23, 43). Frate Alberto mostra ancora una volta la profondità della sua cultura. Mentre sta rientrando nel palazzo, Enrico Scrovegni si sente rivolgere l’invito che Beatrice rivolge a Dante nel V canto del Paradiso (vv. 50-51):

Apri la mente a quel ch’io ti paleso
e fermalvi entro; ché non fa scienza,
sanza lo ritenere, avere inteso.

Non c’è conoscenza se non si tiene nella memoria ciò che si è visto. Prima di intraprendere questo “viaggio” Enrico era come l’uomo del tondo di destra, incapace di distinguere il bene dal male. La donna, simbolo della sapienza (il libro) e dell’elevazione spirituale (la corona), gli ricorda con un sorriso che quella era la sua condizione di prima, ma ora ha visto (simbologia delle clave) ciò che Dio ha fatto per lui, conosce ciò che gli è stato rivelato e ha l’esemplificazione del cammino virtuoso per superare gli ostacoli dei vizi e raggiungere il duplice traguardo della felicità in terra (legata alla natura mortale dell’uomo) e della felicità in cielo (legata alla natura immortale dell’uomo), del Paradiso terrestre, simboleggiato dalla Giustizia, “madre” della pace, e del Paradiso celeste. Nel momento in cui rientra nel palazzo, la sapienza accompagna Enrico con un sorriso e lo invita ad aprire la mente a quello che gli è stato mostrato e a tenerlo vivo nella memoria,

ché non fa scienza,
sanza lo ritenere, avere inteso.

Il miracolo di bellezza e di spiritualità della Cappella degli Scrovegni nasce dall’intesa tra Giotto e frate Alberto da Padova, che detta il programma ed esalta la creatività dell’artista, approvandone il linguaggio e le scelte figurative, anche quelle crude dell’Inferno, dove, anni prima dell’Inferno dantesco, si trovano dannati molti religiosi, compresi un papa e un vescovo simoniaco.

La centralità agostiniana della Giustizia non ammette deroghe.

Giuliano Pisani

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