Sommario
Abstract
Un personaggio a dir poco stravagante, un irregolare di spiccata personalità giunto in Veneto da quel di Mantova, affiliato al convento di Campese, è Teofilo Folengo che acquisisce fama per certe eccentricità linguistiche e porta sconvolgimento nel mondo universitario con l’invenzione di una lingua che è insieme ripresa e parodia del latino.
Il latino maccheronico
Nasce tra i goliardi delle varie università, Bologna e Padova in primis, un desiderio di evasione dalla rigida disciplina dello studio, per cui le brigate di studenti che si incontrano nelle bettole delle città gareggiano nel far versi irriverenti e ironici che coinvolgono anche gli oggetti di studio, la mitologia e la lingua in particolare. Ne nasce quasi una “disciplina” e la storpiatura del latino diviene il linguaggio più adatto, insieme di cultura e di trasgressione: è definito latino maccheronico e sono molti a scrivere versi in questo nuovo linguaggio che indirettamente conferma la definitiva morte, e, se si vuole, resurrezione, del latino classico di cui mantiene una versificazione del tutto regolare.
Seguiamo il critico e studioso Bruno Rosada: «Un fenomeno culturale estremamente interessante, che fiorisce in area veneta attorno alla Università di Padova tra il quindicesimo e il sedicesimo secolo, è quello della poesia maccheronica, una poesia composta in un linguaggio inventato dalla goliardia medievale, comico e burlesco, formato con parole spesso triviali, italiane o dialettali, utilizzando desinenze ed assonanze in modo da sembrare latino. Il termine “maccarone” è di incerta origine: pare tuttavia che derivi dal basso greco “makaria”, un impasto di farina d’orzo e brodo, e vada quindi riferito all’impasto di diverse lingue di cui è fatto il linguaggio di questa poesia. Che poi questo termine abbia trovato ulteriore significato dal carattere plebeo di quel tipo di pasta simile a grossi cannelli (cannelloni) che si condisce con impasti di pomodoro e formaggio non è del tutto improbabile»[1].
Teofilo Folengo
Il più famoso e il più prolifico di questi versificatori, apprezzato anche all’estero, è Teofilo Folengo, alias Merlin Cocai, alias Limerno Pitocco, frate benedettino che viene a vivere a Venezia, precettore dei figli di Camillo Orsini e poi, dopo un periodo che da molti è definito di dissolutezze (ma il Billanovich sembra smentirlo), vive gli ultimi anni nell’importante, allora, monastero di Campese dove si trova la sua tomba. La sua vita è piuttosto complicata, almeno fino al periodo veneziano, poi, rientrato tra i benedettini da cui se ne è uscito, forse a causa di una donna, ha anche incarichi di priore prima sul Lago d’Iseo, poi in Sicilia, per approdare definitivamente in quel di Bassano.
La sua opera (primo titolo: Liber macaronicus), talvolta censurata per il linguaggio e per certa trivialità, ha grande fortuna, tanto che è dall’autore a più riprese rimaneggiata, integrata, ampliata e le edizioni si susseguono: a Venezia, 1517, a Toscolano sul Garda, 1522, ancora a Venezia, 1540 e 1552 (postuma).
Ha in Luigi Pulci [2] e in François Rabelais [3] i principali estimatori. La grande fama delle opere del Folengo (il Baldus soprattutto, un eroe improbabile) è soprattutto dovuta all’impasto linguistico ed è legata senz’altro alla parodia del Poema cavalleresco che il poeta riproduce con l’uso dell’ottava e la scelta sia dei temi che dei personaggi.
Vediamo un solo esempio delle invenzioni linguistiche del Folengo «non lingua goffa e ridiculosa, ma dotata di “armonica struttura”»[4] e della sua capacità lirica, come sottolinea il traduttore Bernardi Perini, uno dei più importanti estimatori: «un esempio forse tra i più alti delle possibilità liriche che il maccheronico folenghiano sa, e non di rado, realizzare; né solo per genuina schiettezza di canto, ma per sapienza d’arte, tanto sottile quanto, alfine, impeccabile».[5]
Egloga VIII De seipso
Vado per hunc boscum solus chiamoque Zaninam,
ut chiamat vitulum vacca dolenta suum.
Cursitat huc illuc, nescit retrovare fiolum,
smergolat echisonis per nemus omne cridis.
Fert altam codam, se trigat, stendit orecchias,
an scoltet puttum forte boare suum.
Heu quia nil sentit, nec sentiet omnibus annis,
nanque suum pignus dulce becarus habet.
Plangens tandem aliquo se firmat sola sub antro,
nulla dat erba cibum, nulla dat unda bibum.
Di se stesso (vv.305-324)
Vago solingo per questo bosco, e chiamo la Zanina
come chiama il suo vitellino la vacca dolente,
che va correndo qua e là, non sa ritrovare il figliolo,
per tutto il bosco smèrgola, e i gridi scuotono l’eco.
Porta dritta la coda, si arresta, distende le orecchie,
se mugolare senta il piccolo suo, chissà.
Ah, che nulla sente, e non sentirà mai più
perché il suo dolce pegno, lo tiene il beccaro.
Piangendo infine si ferma in una spelonca, sola;
erba non più la nutre, onda non più l’abbevera.[6]
Vanno sottolineate la precisione della versificazione latina e le invenzioni linguistiche, reinvenzione più che traduzione di termini del linguaggio comune, con un taglio comico in un contesto che dovrebbe apparire tragico: vacca dolenta, fiolum, orecchias, smergolat e quel becarus finale.
Note:
[1] La citazione è tratta dalla monumentale e documentatissima Storia della letteratura veneta in sei volumi di Bruno Rosada, ancora inedita. (Per gentile concessione della famiglia Rosada)
[2] Il Pulci è autore del poema eroicomico e parodistico Morgante.
[3] Rabelais è autore del Pantagruel e del Gargantua.
[4] Dall’articolo La “Zanitonella” di Teofilo Folengo a 50 anni dalla prima traduzione italiana di Giorgio Bernardi Perini, autore Otello Fabris per la rivista online Senecio.
http://www.senecio.it/sag/fabris_zanitonella.pdf
[5] ibidem
[6] Giorgio Bernardi Perini, Opere di Teofilo Folengo, Ricciardi, Napoli, 1977
Alessandro Cabianca