“Ogni volto mette un brivido/ che si propaga/ a questa novembrina pazza/
festa di spoliazione del ginkgo,/ dal tramonto all’alba“. (A. Cabianca)
Guariento da Arpo, Gli Angeli (1338 – 1367)
Sommario
Abstract
Cinque stupendi poemi a confronto a partire dalla figura dell’Angelo che vi si ritrova pervasivamente.
Figure metaforiche e metafisiche, e metamorfiche, ma anche fisiche, della fisica della luce, gli angeli danno infinita materia ai poeti e non solo in astratto o in senso figurato, ma intervenendo direttamente nel vissuto, come alter ego o anche come altro da sé, specchio o giudice del proprio operare, si dica coscienza o, freudianamente, super io.
“Chi è il terzo che ti cammina sempre accanto?” scrive Eliot ne La terra desolata e forse non pensa a un angelo, con cappuccio e mantello bruno, forse pensa a un alone, a un’ombra, al proprio doppio, altrettanto complesse figurazioni dell’angelo.
Vista sull’Angelo (Book editore, 2009) di Massimo Scrignoli
Riprendere in mano a distanza di tempo una raccolta di poesie riserva scoperte inaspettate e apre a nuove prospettive, specie in relazione a quanto è emerso nel periodo di suggestioni che si sovrappongono, di temi che si propongono in falsariga, di percorsi che si dipartono da orizzonti comuni ma portano a visioni radicali e contrastanti, lontane da punti di partenza in apparenza simili.
È quanto mi è successo rileggendo Vista sull’angelo di Massimo Scrignoli su cui vorrei riprendere quanto a suo tempo da me indicato dopo la prima lettura.
«Mai fidarsi dei poeti: quel che appare è sempre diverso da quel che é; raccontano con parole inconsuete o con le parole di tutti i giorni quel che sfugge ai più, rasentando spesso l’ineffabile; ma lasciano segni chiari, indizi di quei percorsi della mente che hanno portato alla rarefazione del discorso per renderlo comprensibile.
Così, ad esempio, va letto l’inizio di questa affascinante e misteriosa silloge poetica di Massimo Scrignoli, Vista sull’Angelo: quell’”E tuttavia” è, sì, un invito a guardare a quanto viene di seguito specificato, ma è anche un chiaro segnale a riandare al prima; quell’incipit diventa innanzitutto una congiunzione con quanto fin qui il poeta Scrignoli ha scritto; si ricomincia, cioè, da quel che si è già stati e si parte da lì per nuovi e difficili percorsi, anche quando o se si ipotizza che siano senza ritorno.
“Il cammino di chi non si arrende/ sfocia nell’assenza, nella necessità/ di abbandonare l’aria, eredita/ le trame assolate/ di un imprevisto lascito/ di presenze.” (p.28) Se “la vita è ancora viva” (p.75) pare “la distrazione/ di un arcangelo smarrito” (p.15).
È un cammino di conoscenza quello che intende percorrere il poeta verso le profondità dell’uomo, “là dove la parola non si spegne” (p.61), per vincere quell’incomprensibile stare “a cavaliere tra ceneri e guerre”. (p.25)
Ed emergono le presenze di coloro con i quali il poeta ha inteso scopertamente confrontarsi: William Blake, Ezra Pound, Thomas Stearn Eliot o Gustav Mahler.
Le invettive di Pound contro l’usura trovano un riscontro nei versi che seguono: “E dopo l’alluvione/ non si fece con usura Piero della Francesca/ né l’usura ha dato voce al Canto della Terra” (p.25), dove troviamo anche un preciso riferimento al poema sinfonico di Gustav Mahler “Canto della Terra”.
Ma i rimandi più significativi vanno alla poesia di Blake per gli aspetti più strettamente legati al mistero della vita e vanno alla poesia di Eliot, cui si è fatto precedentemente cenno, per quell’attenzione alla presenza di figure che camminano misteriose accanto all’uomo e di cui quasi nessuno si accorge, siano angeli oppure ombre che seguono ogni corpo in movimento: “Chi è il terzo che sempre ti cammina accanto?/ Se conto, siamo soltanto tu ed io insieme/ ma quando guardo innanzi a me lungo la strada bianca/ c’è sempre un altro che ti cammina accanto” (T. S. Eliot).
Angeli, arcangeli, dèmoni forse, sicuramente messaggeri, ma di cosa? Della parola forse o del pensiero o dell’immagine o del mistero o del divino o, più propriamente, della vita e della morte, come la “Cherubina del vuoto” (p.41), strano volgersi al femminile di nomi che nella tradizione sono sempre al maschile, forse perché la vita ci viene dalla donna e così si vuole che nemmeno la morte, come ritorno nel più ampio grembo del creato, abbia valenza maschile.
Il poeta chiederà “della sorte del deserto” e “della sabbia,/ che come rondine illusa/ fruga tra le rose di sasso/ la verità nascosta agli uomini” (p.75) si interroga sul suo destino e sul destino della terra in cui momentaneamente sconta il disagio per aver conosciuto le estati assediate “da temporali e cicale stonate” (p.29), per aver conosciuto Auschwitz, ma anche il Monte Athos “là dove si arriva salendo, dove/ quasi salendo/ la gente non muore”. (p.53)
Non è certo rassicurante il paesaggio che delinea la poesia di Scrignoli se in “una città senza aria” “cenere, nebbia e musica” stanno “piovendo su una strada in rovina” (pp.19-20), ma è pur sempre un paesaggio di alberi e venti, di acque e nuvole, come di vertigini e di paure, di voci e di silenzi.
Non è più la narrazione felice o il cantare disteso di chi accoglie con leggerezza il destino, ma il laborioso indagare il senso della libertà che ad ognuno è data in cerca de “l’alfabeto infedele perduto/ a nord” (p.77) che permetta di “intuire decifrare tradurre/ tutti gli indugi del tempo” (p.33).
Anche la strutturazione delle parti della raccolta lascia intendere un lungo, intenso lavorio, dalla prima sezione “Senza ritorno” fino all’ultima “La casa“, luogo tutt’altro che pacificato, dove agli oggetti in sé rassicuranti si aggiungono presenze inquietanti, che prefigurano esseri che non hanno volto o nome, passando attraverso una disamina sul tempo (la sezione “Del tempo“), motore dell’intera narrazione. Gli intrecci tra presenza e assenza e tra vita e morte si infittiscono, fin negli exergo o nelle note, nel corpo vivo dei versi, nelle interrogazioni sull’insensatezza del presente e su “il cedimento di Dio” passando attraverso quel mondo dell’altrove che è la poesia.
Questa densissima raccolta che apre a paesaggi infiniti, paesaggi dell’anima, naturalmente, e si pone in dialogo serrato con altri poeti che hanno segnato le strade della verticalità del pensiero, ancora una volta affida alla parola l’unica possibile sopravvivenza».
Ma da qui molta acqua è passata e la poesia ha portato numerose e significative sollecitazioni sul tema, cioè sugli angeli, creando dei veri gioielli, se non vogliamo chiamarli capolavori.
Viaggio in Paradiso, Poema fantamistico per il XXI secolo (IPOC di Pietro Condemi, 2017) di Ettore Perrella
Molto suggestiva la ripresa del Paradiso di Dante di Ettore Perrella con il Viaggio in Paradiso, Poema fantamistico per il XXI secolo in tre Cantiche di trentatré Canti ciascuna e Prologo, come la Commedia del sommo Dante, un libro che merita di essere conosciuto sia per la vastità della cultura sia perché calato nel contemporaneo con sapienti riprese della struttura, dei temi e dei ritmi del modello. Qui teologia, filosofia, storia, scienza e cultura si intrecciano creando una serie di inaspettati collegamenti e significative vicinanze tra mondi in apparenza lontani se non irrimediabilmente conflittuali, per storia e dottrina.
Per dare conto della vastità della dottrina di questo Poema citiamo quanto scritto in Quarta di copertina: Abbiamo fra le mani un’opera di poesia raffinatissima, che affronta tuttavia sempre, al tempo stesso con umorismo e vertiginoso impegno (come raramente è accaduto nella letteratura italiana), sia dei difficili temi filosofici, sia degli argomenti di cronaca, sulla base delle testimonianze dei personaggi più diversi. Compaiono filosofi (Agostino, Nietzsche, Platone), scienziati (Einstein, Freud, Gödel), scrittori (Pasolini, Dante, Kavafis), politici (Alessandro Magno, Augusto, Adriano, ma anche Lincoln, Kennedy e Martin Luther King), santi (Teresa di Calcutta, Gregorio Palamas, i tre Ierarchi), attori e personaggi del gossip (Marilyn Monroe, Maria Callas, Lady Diana). Ma alla fine interviene, con gli Arcangeli e Maria di Nazareth, anche Rabbi Yehoshùa (Cristo stesso) che, con i fondatori delle altre grandi religioni, ha organizzato a Gerusalemme (dove sono nate alcune di esse) un primo concilio interreligioso, alla ricerca d’un modo per riproporre all’umanità d’oggi il vecchio problema del rispetto del sacro e dell’importanza dell’impegno etico, che non può mai essere trascurato quando si deve decidere che fare.
Non si pensi ad una semplice imitazione del poema dantesco, anche se, analogamente, c’è in Perrella il calarsi nella realtà del proprio tempo; c’è una attualizzazione delle conoscenze e delle esperienze dell’autore che rende questo lavoro uno strumento indispensabile per cogliere appieno il tempo presente.
Torniamo però al nostro tema: angeli e arcangeli, o cori angelici, sono presenti nel Poema con una funzione di adorazione del divino e di esaltazione del creato nel senso della bellezza. L’ultimo canto del Poema ci riporta ai canti XXVIII e XXIX della terza cantica della Commedia dantesca: S’udì dall’alto, nella primavera/ di rami, frutti e fiori mosaicati,/ un nuovo canto, che per noi s’invera.// Forse il coro degli angeli, invitati/ lì, per cantare, dispiegava le ali,/ non visto, dietro i culmini dorati.
Nella seconda cantica al canto VIII viene delineata la natura deli angeli: Levai lo sguardo al cielo nuovamente./ Si disponeva in cerchio il dolce coro,/ tutto chiaro di luce iridescente./ Ruotando attorno al luogo in cui dimoro,/ fa risuonare tutti i suoi strumenti,/ sui quali leva la sua voce d’oro:/ «Gli spiriti noi siamo, sorprendenti/ eppure manifesti, per chi veda,/ con occhi luminosi e trasparenti,/ molto al di là di ciò che sappia o creda./ Sulla materia, s’è sottile solo,/ da quell’atto che doni e nulla chieda,/ la distingue, ma non separa, il volo./ Siamo noi, che tessiamo l’universo,/ e ne facciamo insieme un cielo e un suolo./ Operando con gioia, verso a verso,/ alleviamo la vita che trascende/ il creato, in creazione riconverso./ Quell’assoluto, che fra noi discende,/ per noi schiude la scala su cui sale/ chi verso l’alto, nella vita, tende./ Di che sostanza siamo non ti vale/ sapere, se chi vive non è niente/ altro che il soffio d’un sovraessenziale.
In questo caso quindi gli angeli partecipano al disegno universale per dare gloria al Creatore, in un disegno grandioso che indaga e racconta la realtà attraverso una incessante ricerca del senso delle cose umane e della presenza del sovrannaturale a elevare l’umanità dal peso e dalle brutture del presente verso un orizzonte di conoscenza e grazia.
Il canzoniere dell’angelo di terra (Biblioteca dei Leoni, 2020) di Giovanni Sato
L’apertura di questa raccolta di poesie è una carrellata di riferimenti a figure angeliche dei grandi: Rilke, Donne, Montale, Rimbaud, Dickinson, Ungaretti, Valeri con un riferimento alla Scrittura, Salmo 18: “Cavalcava un cherubino e volava/ si librava sulle ali del vento”.
Profonda spiritualità e inaspettata, per esseri incorporei, umanità (l’angelo pensoso, l’angelo stanco, l’angelo che dorme) hanno gli angeli di Giovanni Sato, e sono soprattutto ali, questi angeli, più spesso nominati come angeli di terra, somiglianti a l’angelo uomo, in una sorta di inconciliabile ossimoro.
“Oggi l’angelo ha un dire di pietra/ con le labbra sillaba il sasso/ la più dura di tutte le forme.// Ma le foglie scolpite dal vento/ non temono voci e muovono ancora:/ nel tempo succede che l’angelo stanco// non trovi più senso a soccorrere l’uomo:/ troppa pietra ha bloccato le ali […]” (p.144).
Gli angeli di Sato non abitano in cielo, ma sugli alberi, sui sassi, abitano i sogni e le parole: “Tutto è un grande/ silenzio d’anime,/ un angelo si muove tra i sonni:/ protegge le vite dal dubbio, se vivere/ o lasciarsi prendere dal sogno.” (p.136) Vola davvero in alto questa poesia, di certo portata da ali che aiutano a staccarsi da terra e a concentrare lo sguardo sulla vastità dei paesi, oltre l’umano, “nel tempo senza tempo”, nel “punto/ dove tutto ricomincia” (L’angelo ha raggiunto, p.88) “E così,/ se il senso di tutto questo vivere/ è vivere per vivere/ lasciando i corpi sopravvivere/ oppure forse è altro,/ è un angelo/ che nell’avvolto corpo/ atteso dall’azzurro/ il dolore sordo toglie/ e altro è il respiro dell’addio.//È un toccare tutti/ i tempi e i luoghi della vita/ in pochi passi/ in minimi frammenti.// E l’angelo dell’a e della zeta/ trasporta tutto all’alto della nube. (p.86)
Per dare corpo a queste note sarà importante riandare alla precedente ricerca poetica di Giovanni Sato che ha pubblicato varie raccolte di poesia, per soffermarci in particolare su Geografia interiore. Le prime raccolte, dai titoli già significativi, dal lontano Intonazioni del 1995 alle pubblicazioni degli ultimi anni Vibrazioni di luce (2010) e, per contrapposizione, La trasparenza dell’ombra (2013), sono nel segno della ispirazione che per Giovanni Sato è insieme emozione e spiritualità, bisogno di conoscere e di comunicare, di rappresentare e di consolidare le certezze dell’io. È quindi poesia dell’essere e dello sguardo, luminoso e stanziale. Differente, a mio parere, il percorso dell’ultima raccolta Geografia interiore. Mentre nelle precedenti gli interrogativi apparivano come certezze ora sono le certezze che appaiono come interrogativi, poiché in questo caso si tratta di un viaggio, non di una meta, qui è ben chiaro il percorso, non il dove si arriva o si deve arrivare.
Appropriatissimo, quindi, il titolo Geografia interiore, perché senza uno spazio, una geografia, non c’è un percorso possibile e questo viaggio poetico è poesia dell’esistenza e della interiorità, introspezione, percorso di vita e di riflessione. Non vanno ricercati i punti interrogativi in questa poesia, non ci sono, lo sottolineiamo, perché l’interrogazione è qui uno stato mentale, una disposizione dell’essere, di tipo metaforico come già risulta dal viaggio interiore, cioè un viaggio di chi sta fermo e riflette, quindi un ossimoro dentro una geografia che è innanzitutto grafia, scrittura, mentre la prima parte della parola composta, γῆ (terra) è il vissuto del poeta.
Facciamo un esempio da L’aprirsi dissonante delle età; già il primo verso: “Quasi che amore si trovi/al bivio…” (p.81) indica una ricerca di un luogo, e non importa quale, ma è già una domanda: Dove sta, l’amore?
Il pensiero si fa itinerante, in continua ricerca e il dubbio, a volte manifesto a volte perfino reticente, la domanda sostituisce le certezze.
È il bisogno di ogni uomo di vedere oltre, di sperare che al di là delle tribolazioni e delle piccolezze dell’esistenza vi sia qualcosa di più grande e di più vero in cui confidare per non essere travolti, per credere che non tutto finisca. Allora si deve cercare la vita nel movimento, non nella stasi, nel perpetuo andare dell’onda: “Voi onde che non temete/ l’apparire dei cieli” (p.32)
È questo riflesso d’infinito lo scontrarsi con il limite, con il confine ultimo o con la perdita, anche amorosa, con il nulla, la morte che incrocia molte riflessioni dei poeti del ‘900 a partire da Baudelaire e Rimbaud con una diversa tensione verso l’infinito e con una distanza significativa anche sul piano stilistico. Tutto questo, abbiamo detto, ha bisogno di una collocazione geografica, appunto! di una geografia che si obbliga a individuare luoghi, strade, mete di un paesaggio fisico e di un paesaggio interiore che via via si chiariscono; non quindi il nulla dei simbolisti allo scopo di svuotare di senso la realtà, di creare un linguaggio oscuro, un ‘io’ artificiale, puro linguaggio, disumanizzato, ma quel nulla fisico che è la morte (o, psicologicamente, la perdita) su cui riflettere come su un mistero legato alla finitezza dell’esistere e attraverso cui individuare il più profondo significato all’esistere stesso in un riscoperto rapporto con l’altro, accettando una propria relatività e significandola attraverso l’alterità, in rapporto con la natura e con il tempo.
È, come nei versi di Davide Maria Turoldo, un nuovo possesso, se volete, una nuova certezza, quello che consegue ad una perdita, ed è un nuovo stupore nella unica poesia (p.109), con l’altra (p.41) Il viaggio degli steli, su cui torneremo, che si chiude con la parola “felicità”. “Consolatevi così/ non avrete monti, né mari, né colline/ né altro, neppure una parola” “Volgetevi stupiti/ a quel che ora avrete”.
E va sottolineata la presenza di alcune parole chiave che illuminano il testo quasi in ogni poesia con il variare del concetto di viaggio e del concetto di meta: il mistero, la sorpresa, l’attesa, la scoperta, il vagare, il guardarsi indietro, i confini, il perdersi o il ritrovarsi. Diventa davvero rasserenante questo continuo andare, poiché del viaggio la scoperta e l’incontro sono parte essenziale e, in ultimo, anche la scoperta di un pensiero che guida tutti gli altri pensieri, in maniera più intima, più sofferta, anche rispetto alle raccolte precedenti di Giovanni Sato, uno sguardo verso il cielo e, insieme, uno sguardo all’io, a fronte del rischio della perdita, potrei dire fisica: della strada, dell’io, dell’altro o di Dio, alla ricerca di una relazione rassicurante o, meglio, per dirla con il poeta: “Ma oltre/ camminando fra le rovine/ cresce il futuro dei sogni,/ quello stillicidio esangue/ di felicità” (p.41).
Gli angeli di fine millennio (Nemapress edizioni, 2022) di Stefan Damian (Lykeios e Tribuna)
Saltellano, cadono, ridono, dormono, sognano, sbadigliano, bisbigliano, cantano, piangono, non si può in alcun modo dire che siano immateriali, puro spirito, sono anzi terra e carne, materia e ci calano nel quotidiano Gli angeli di fine millennio dello scrittore, critico, saggista e poeta romeno, docente di letteratura italiana a Cluj Napoca in Romania, Stefan Damian. Sono angeli non più immortali “Presso il padiglione dove si allacciano i destini/ di sabato e di domenica/ c’è un cimitero/ degli uccelli e degli angeli” (p.30). Questi angeli “anche visti da un lato/ non sono perfetti” (p.34), possono avere “braccia dispari” (p.34), possono farsi statue o riproduzioni sulle pareti o sulle fotografie, possono essere “angeli-donna con occhi acquosi” (p.51) o “angeli-maschi” o “angeli giovani” o “angeli ragazzi”, sono cioè tutt’altro che puri spiriti “si siedono su sedie vellutate” (p.44) “stanno tra i fiori/ all’ombra della rugiada/ sono grassi come i passeri d’autunno” (p.13) “sono amati/ con la passione dell’attimo/ che scrive la storia e le sue scelleratezze” (p.54).
Qui non c’è discontinuità tra il celestiale e l’umano, anzi lo sguardo del poeta è fisso sulla realtà e sul suo degradarsi, dove gli angeli perdono la loro funzione di messaggeri o compagni e hanno scarsa possibilità di intervento: “Sono troppe le cose/ che si dovrebbero fare/ nella palazzina decadente/ in cui gli stivali degli ufficiali/ hanno infranto il silenzio della pace” (p.44) e possono solo volere che “non si muovano i granelli di polvere/ provocati dal loro librarsi” (p.44); poco, davvero poco!
Angeli che non incidono su un reale deteriorato, possono solo passare fischiando come spettatori impassibili, appena infastiditi: “Un angelo passa e fischia la stessa melodia/ di cui si sono stufati/ i cani abbandonati lungo il ruscello soffocato/
da plastiche e foglie/ da abiti vuoti che hanno dimenticato la via/ per salire al cielo” (p-23)
Appaiono sfiancati, questi angeli di fine millennio, e assenti, nessun aiuto possono dare a chi lo richiede: “Stendi la mano per acchiappare i loro abiti invisibili/ per non sentirti solo/ e tremare” (p.35), c’è perfino da domandarsi se davvero esistano o non somiglino piuttosto alla materia dei sogni o non siano che passanti curiosi o indifferenti che: “si raccontano/ le storie della strada senza essere domandati:/ sanno come vanno le cose/ nel Paese e fuori” (p.62). Si raccontano, sanno, ma che fanno? Nulla, forse, o nulla possono nei confronti di chi: “brucia con la sigaretta/ le formiche” (p.80)
Nella concretezza dei vissuti dei singoli e delle catastrofi collettive in cui sono immersi questi angeli, che ci riportano alla felicissima definizione di Giovanni Sato, angeli di terra, sta la novità di questa ricerca, insieme poetica e sociologica, spirituale nel senso più alto del termine, indagine sulla grandezza e sugli abissi dell’animo umano, lontanissima da una visione confessionale, irriverente anzi nei confronti degli assoluti: “Cerca radici di piante/ un lombrico/ che va gonfio di speranza/ alla ricerca di un Dio/ dei lombrichi” (p.29).
Non resta che la parola, che mette in relazione ogni creatura, purché si sia in grado di superare il muro dell’incomunicabilità e ascoltare, la lingua del vento, quella dei volatili, delle foglie: “La lingua del vento ha l’umiltà dell’acqua./ È parlata da tutti i volatili./ Dicono che l’aria è avvelenata/ come la casa in cui manca l’amore/…/Persino le foglie/ agitate da idee venute dal nulla/ bisbigliano con un brusio stupefatto:/ percettibile solo per le orecchie/ che si schiudono e chiudono/ come ventagli rassegnati” (p.69)
Quel che il poeta racconta riguarda gli stritolati della vita, le farfalle crocifisse, gli spazzini, i vecchi, gli ubriachi, i pazzi e poi gli animali e le piante; sullo sfondo la lotta tra il bene e il male, tra pace e violenza e guerra, tra felicità e dolore, tra vita, morte e immortalità, desolatamente: “La morte trattiene i morti/ i morti trattengono la morte. Solo gli archeologi/ sono dei che sanno farla risorgere./ Però non possono far rinascere/ anche i morti” (p.31). Lo conferma, da altra angolazione, Neria De Giovanni nella Prefazione: “Il grandioso affresco surreale che Damian ha costruito in questo universo poetico angelico-umano descrive profeticamente una sconsolante realtà del mondo politico in cui la società occidentale sembra ormai sprofondata”. Damian quindi è un poeta che utilizza la metafora angelica per parlare della contemporaneità, sempre meno rassicurante, sempre più violenta, nella quale anche le figure angeliche sono immerse e vi assistono impotenti o indifferenti o rassegnate.
È da evitare il fraintendimento di leggere queste poesie con il metro del pessimismo, si tratta piuttosto di un lucidissimo quadro della realtà, molto più problematico di quel che si possa raccontare; una poesia di cui oggi si ha un particolare bisogno perché toglie al lettore l’alibi della contemplazione e lo cala nelle contraddizioni del reale.
L’aggiunto (Panda, 2014) di Amelia Burlon Siliotti
Tra queste sillogi di elevata spiritualità, pur non trattando di figura angelica, dovremmo considerare anche il delicatissimo e suggestivo pluriritratto che fa Amelia Burlon Siliotti di Giuseppe, in L’aggiunto (2014), a partire dal titolo, che porta con sé numerosi significati: dal riferimento al figlio primogenito o prediletto (“Dio accresce, Dio aggiunge”), come detto in prefazione da Padre Piccolomini, al concetto di “prescelto”, ma anche di strumento involontario nelle mani di Dio e, con un di più di malizia, alla considerazione di un “quasi intruso” nel disegno divino, quasi che anche Dio abbia dovuto sottostare alle convenzioni degli umani, come se una ragazza madre non avesse potuto compiere appieno il destino del figlio di Dio senza avere accanto un uomo, senza essere famiglia. Non quindi un angelo, ma un “prescelto” che in momenti fondamentali della sua vita “incontra” gli angeli: nel sogno che gli annuncia la nascita del figlio, nella Annunciazione a Maria e nella morte: “Giuseppe, fu un angelo/ a spegnere i tuoi occhi// un custode del cielo/ che ti guardava di luce/ e t’innalzava// staccò la tua solitudine/ e ti colse pianta/ più forte del campo// lasciata morire/ di stenti d’amore// ti chiamerò padre/ avvolgendoti/ come il sole raccoglie/ la terra di calore” (p.59). Metafisifca del pensiero.
Alessandro Cabianca