Sommario
Abstract
A Monteortone, località di Abano Terme (PD), sotto l’intonaco delle pareti del Santuario della Beata Vergine della Salute, forse ci sono gli affreschi di uno dei maggiori pittori del ’400 veneto. Questa la suggestiva ipotesi di Marilia Righetti.
Monteortone e la pestilenza del 1631
In occasione della terribile pestilenza del 1631 (di manzoniana memoria), che annientò i due terzi della popolazione dei Colli Euganei, ed in seguito ad alcune epidemie di colera scoppiate in epoche successive, le pareti del santuario di Monteortone furono intonacate a calce viva, con l’intento di effettuare una radicale disinfezione della chiesa: le pitture sottostanti, naturalmente, subirono danni ingenti. Solo in tempi molto recenti furono scoperti e restaurati gli affreschi del presbiterio, opera di Jacopo da Montagnana, e, in parte, quelli delle navate laterali, che però appaiono piuttosto sbiaditi. Ma cosa si nasconde, ancora, sotto l’intonaco delle volte?
Il ciclo di affreschi commissionato al Pìzzolo per il Santuario
Marilia Righetti, scrittrice di monografie su storia ed arte del Veneto, nonché critica d’arte, avanza un’ipotesi interessante, ricordando che nel 1441 ebbe inizio una contesa tra Simone da Camerino, priore ed economo del monastero agostiniano di Monteortone, ed il pittore Nicolò di Pietro, detto “il Pìzzolo”, uomo rissoso e ribelle, ma genio molto dotato, contemporaneo ed amico del Donatello, del Lippi e del giovane Mantegna. Per contratto, l’artista avrebbe dovuto eseguire nel santuario un ciclo di affreschi nell’arco massimo di un anno, usufruendo gratuitamente, nel frattempo, di vitto ed alloggio presso l’attiguo convento. Sennonché, dopo soli quattro mesi di ininterrotto lavoro, il pittore firmò l’opera e si presentò da fra Simone per avere i suoi 47 ducati d’oro, regolarmente concordati.
Il frate, giustamente perplesso per la celerità con cui Nicolò sosteneva d’aver completato il progetto, fece un sopralluogo in chiesa e… si convinse che i dipinti erano stati eseguiti a regola d’arte. Tuttavia, ritenne che la somma pattuita dovesse essere ridotta per due importanti motivi: primo, perché il pittore, in quanto al rispetto dei tempi, non aveva mantenuto fede agli accordi contrattuali; secondo, perché durante quel quadrimestre aveva mangiato e bevuto a scrocco: clausola, questa, non adeguatamente chiarita nel documento redatto dai frati (in altre parole, il “Pìzzolo” ne aveva abbondantemente approfittato).
Il contenzioso tra il monastero e il pittore
Così, verso la fine d’ottobre, al Palazzo della Ragione di Padova furono nominati gli arbitri del contenzioso: Francesco Squarcione (per il monastero) e Nicolò Fiorentino (per il pittore). Fu incaricato anche un terzo componente, certo mastro Jacopo di Contrada del Duomo, che però, dopo essere stato scelto, non venne mai interpellato. I due periti si recarono a Monteortone per osservare con i loro occhi, diligentemente e scrupolosamente, i dipinti del “Pìzzolo”. In novembre, presentarono concordi una minuziosa relazione, stimando che frate Simone dovesse pagare i 47 ducati, senza tener conto, peraltro, delle spese sostenute ed aggiungendo che l’artista aveva potuto terminare “habiliter” (cioè “comodamente”, “agevolmente”) l’opera in quattro mesi.
Dove sono gli affreschi del Pìzzolo, “morto a tradimento”?
A questo punto, la Righetti si chiede: “Ma dove sono gli affreschi? Cosa rappresentavano? Scomparvero, forse, nel 1441, quando un furioso incendio, propagatosi dall’attiguo monastero agostiniano, ebbe a danneggiare la prima costruzione della chiesa, o restano ancora in qualche parte del tempio, sotto la calce?”. Per venirne a capo, bisognerebbe che qualche “mecenate” (ammesso che ne esistano ancora) si prendesse a cuore la questione ed avviasse a proprie spese un intervento di raschiamento completo delle volte.
Al fine di soddisfare la curiosità dei lettori, ricorderò che il “Pìzzolo”, figlio di ser Pietro di Villaganzerla, a motivo del carattere spavaldo ed aggressivo che, in un certo senso, lo avvicinava al più tardivo Caravaggio, fece una brutta fine: morì, infatti, di morte violenta, assalito in un’imboscata nell’autunno del 1453, poco più che trentenne. Giorgio Vasari, ne “Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti”, narra della tragica sorte dell’artista (“Un giorno che tornava da lavorare fu affrontato e morto a tradimento”). Ricavato, forse, da una serie di missive inviate dal notaio e scrittore d’arte Girolamo Campagnola al docente universitario di lettere greche e latine Niccolò Leonico Tomeo, il suo racconto trovò in seguito una solida conferma documentaria.
Enzo Ramazzina