I ritmi della poesia nella scrittura di Luigi Meneghello

Nota biografica

Luigi Meneghelo nasce a Malo, nell’alto vicentino, nel 1922. Dopo gli studi elementari in paese frequenta il Regio Ginnasio-Liceo classico Pigafetta a Vicenza e nel 1939 si iscrive all’Università di Padova a Lettere per poi passare a Filosofia. Nel 1940 vince i Littoriali a Bologna. Nel ’43 è a Merano al Corso Allievi Ufficiali Alpini ma l’aver conosciuto a Padova Antonio Giuriolo, che per tutta la vita Meneghello indicherà come il suo vero maestro, mette in crisi il suo “fascismo giovanile” e lo porta verso il Partito d’Azione tra i capi della Resistenza. Nel 1945 si laurea con una tesi su “La critica” di Benedetto Croce. Vince una borsa di studio all’Università inglese di Reading dove pensa di rimanere un anno e invece vi insegnerà per tutta la vita. Altro momento capitale è l’incontro con Katia Bleier, ebrea jugoslava deportata ad Auschwitz e poi a Belsen che sposa nel 1948, compagna di tutta la vita. Non ho inteso aggiungere a queste poche note anche una bibliografia, perché assai nota, e faccio presente che, ai fini del discorso sulla poesia di Meneghello, ho considerato soprattutto il secondo libro, Pomo pero.

Un ricordo personale

Mi permetto di iniziare con un ricordo personale che mostra quanto sia vicino il mondo della mia infanzia e il linguaggio, anche sul piano emozionale, al mondo e al linguaggio di Meneghello: stessi luoghi, stessa temperie culturale (se così si può dire per una tradizione che di colto ha solo la tradizione orale paesana), stesse parole e stessa parlata. Il don Bernardo che troviamo nelle prime pagine di Libera nos a Malo (pp-14-15 della edizione RCS), il “temutissimo Don Bernardo” di cui scrive anche Oliviero Ponte di Pino commentando gli Album di Marco Paolini, da cappellano di Malo diventa arciprete per quasi quarant’anni del mio paese, confinante con Malo. E le sue caratteristiche, messe in luce da Meneghello, in particolare gli sputi sui ragazzi delle prime file alle prediche, mi ricordano il suo andare per osterie, ma bonariamente e sempre con il toscano in bocca e il bicchiere di rosso a lato, per il tressette, nella convinzione di evitare qualche bestemmia ai giocatori o forse per uscire dalla noia di un paese di poche migliaia di anime e quattro ragazzotti scalmanati, da confessare, da redarguire, da trattenere sulla retta via.

Malo

Malo (Vi), Piazza e Castello (Cartolina d’epoca)

Ecco, Malo, all’improvviso! Chi sapeva di Malo, prima di Meneghello e chi sapeva che Malo ha una sua lingua? Che esista un parlato, come dicono i dialettologi, non si può negare, ma una lingua scritta? Ecco, ci ha pensato Meneghello e già il nome, Malo, che collide con ‘male’, ma anche con l’ultimo versetto del Pater noster, ha dei substrati che vanno ben oltre la superficie e creano qualche allarme.

Scrive Andrea Zanzotto proprio commentando le pagine in versi di Pomo pero che Meneghello intitola Ur-Malo, con riferimento alla mitica Ur dei Caldei della Mesopotamia che da villaggio di pastori/agricoltori era diventata una capitale in grado di competere con le città vicine: «Le tavole originarie (Ur) di quel mondo che è il villaggio di Malo sono date in testi formati da vocaboli dialettali (in parte caduti) che si attraggono e si rapprendono per fattori che sembrano soltanto omofonici e omoritmici, ma esse giungono a definirsi come spessa e perfino coattiva compiutezza. Da vera “legge” o codice genetico che sta all’inizio, magicamente fossile oggettuale, eppure attivissimo».

Quale linguaggio ne prende il posto? Una lingua acquisita, spesso fredda o burocratizzata, la lingua dell’obbligo scolastico, benemerita socialmente, ma muta per chi non l’ha mai praticata.

Il dialetto e la poesia

Qui è d’obbligo fare una distinzione: il dialetto di Zanzotto è finalizzato al racconto (basti pensare ai miniracconti dei I mestierioi ESEMPIO Justaombrele o Caregheta o Moleta), mentre il dialetto di Meneghello afferisce al linguaggio. Significa che il linguaggio di molte tiritere e filastrocche infantili può non avere un significato logico, anzi, a volte per storpiature secolari e ripetizioni solamente meccaniche, è diventato solamente ritmo o puro suono o suggestive visioni magiche indecifrabili che per i bambini è soltanto scansione, oggi si direbbe mnemotecnica, per accompagnare i movimenti dei giochi con parole di pura invenzione e anche per le devote che di latino capiscono un’acca: anche per la pessima pronuncia e il rimastichio delle parole della liturgia che ne fanno i preti a messa e nelle funzioni religiose. Potrei dirvi del rosario: ave maria grazia plena dominustecum etc.

Formule magiche, tiritere, filastrocche

Ecco invece una formula magica, giocosa e gioiosa, priva di qualunque significato che non sia il ritmo percussivo per decidere le gerarchie nei giochi:

Enghene, penghene/ dove finé/ abene favene dominé/ en pen du strò.

oppure una formula irriverente:

Careghete, Dòne/ che porta le Madòne/ che porta i Andolèti/ Schiti! Schiti! Schiti!

Oppure

An Pan/ Fiol d’un Can/ Fiol d’un Béco/ Muri Séco/ Cole Gambe Disti-rà.

E non serve che Meneghello cerchi di darne una qualche razionalizzazione come per El Conte de Milan/ co le braghe in man/ col capèl de paja/ Conte canaja, dove a dominare sono il non-senso e la rima. Meneghello, tra il serio e il divertito, cerca di spiegare la tititera con la venuta a Malo di un nobile, forse un conte, che subito fu detto “da Milan” per dargli importanza.

Come pure per la tiritera dell’Ava, con evidente doppio senso: Ava aveta, do lo ghetu ‘l basavéjo (pungiglione)?

Qui la rima non c’è e non serve.

A fare il paio con le storpiature delle devote nelle processioni: Requiem eternam, dona ei domine che diventa Rechie meterna e che i ragazzi reinventano per esorcizzare la morte e far infuriare con un godimento un po’ sadico, il cappellano: Rechie meterna/ dona sta ferma/ zo par quel buso/ no sta pi’ vegnir suso, accompagnando da chierichetti i funerali delle più vecchie del paese, le donne in nero col capo coperto da ampi scialli, che per quei ragazzacci erano già morte da vive, borbottando senza farsi troppo notare la formula magica come un esorcismo.

La forza evocativa del linguaggio di Meneghello

Malo, (Vi), Villa Clementi

Altra significativa differenza riguarda il linguaggio connotativo di Meneghello contro il linguaggio associativo/dissociativo, quello che Marco Paolini, che ha messo in scena Libera nos a Malo e frequentato il poeta, in una intervista chiama la parola/cosa (anche per la differente dislocazione dei versi nella pagina, lineare in Meneghello, visuale in Zanzotto, ma questo discorso ci porterebbe molto lontano e lo lascio così, appena accennato).

Scrive il critico Marco Manotta: “Registri, di parole, seguendo un principio compositivo combinatorio, sfruttato da altri autori e narratori – penso a Bufalino per esempio, al perduto avantesto della Diceria. Le parole di Ur-Malo, listate seguendo schemi di ordinamento formale, appaiono come imbalsamate, poiché avulse dal contesto vivo della sintassi, del racconto, dell’esperienza; ma si spiegano, o meglio, si illustrano (e quindi “risplendono” con reciproco riverbero) l’una con l’altra attraverso rapporti di contiguità metonimica; idealmente – siamo in presenza di un possibile avantesto o apparato variantistico, regolato dalla funzione poetica del linguaggio che si muove in un ambito di tipo combinatorio. Le sequenze si organizzano sulla base di titoli d’ordine formale: il problema per i poeti non è quello di scegliere la variante migliore stilisticamente da un serbatoio lessicale costruito in base a direttive e coordinate semantiche, ma di operare una semantizzazione di secondo grado su un serbatoio lessicale costruito stilisticamente, in base a incroci eufonici, prosodici, molto più che semantici; il risultato finale è una “risemantizzazione” della lingua, una nuova lingua, non un nuovo stile”.

Schemi ritmici: alcuni esempi

Ricordiamo, con una breve premessa prima di passare ad alcuni esempi, solo alcuni schemi ritmici utilizzati da Meneghello nella costruzione dei suoi versi: sostantivi maschili trisillabi piani; epiteti trisillabi piani con chiusura bisillabica tronca; sostantivi maschili bisillabi in ón; epiteti e insulti bisillabi in ìn, con chiusura in àn; composizione in aio oio; forme verbali trisillabe sdrucciole ecc… L’attenzione non pare semplicemente riservata ai fattori timbrici, ritmici, in senso ampio musicali, ma è presente un interesse che definirei “militante” per la produttività morfologica (Manotta).

ESEMPI da Pomo pero, solo indicati per numero di pagine per sinteticità:

1) dodecasillabi in rima composti di parole trisillabiche a ritmo di marcia (P: 159)

2) ottonari con parole di due sillabe e accenti sulla prima sillaba (P: 161)

3) decasillabi con ritmo percussivo (P:171)

“Delle filastrocche infantili Meneghello assume la forma e la cadenza nelle memorabili serie di nomi di Ur-Malo. Gli ottonari trocaici, i dodecasillabi con accenti sulle sillabe pari, si accordano ai ritmi più congeniali alla scansione prosodica della liturgia popolare” scrive il critico Antonelli nella prefazione a Pomo pero, ma due cose vanno sottolineate più decisamente: la scelta quasi esclusiva di Meneghello dei versi parisillabi, anche i brevissimi bisillabi e quaternari, a differenza della scelta primaria della poesia italiana maggiore che sceglie i versi imparisillabi di cui il verso principe è l’endecasillabo, l’altro aspetto riguarda l’accennato riferimento alla liturgia, a certi salmi introiettati, e talvolta involontariamente o volontariamente deformati, dalla devozione popolare. Del resto negli anni della giovinezza di Meneghello poche erano le fonti culturali per i ragazzi e per alcuni, prima dell’arrivo della scolarizzazione obbligatoria, uniche fonti rimanevano la dottrina cristiana, i racconti biblici e i vangeli, per come li interpretavano i preti, non sempre di eccelsa cultura, e i riti cristiani, i salmi e le orazioni.

Trascrizione o invenzione?

Foto di gruppo dei “piccoli maestri”, si riconoscono (da destra) Benedetto Galla, Lelio Spanevello, Dante Caneva, Luigi Meneghello. archivio effigie

“In questo senso ci viene in soccorso Maredè, maredè…, dove troviamo redatte alcune schede di ambito morfologico, come quelle sugli effetti degli accrescitivi e dei vezzeggiativi, sul comportamento dei sostantivi-epiteti-aggettivi in –ón, sulla forza espansiva o astringente delle desinenze in –ata/o e –òto, e soprattutto, nascosti sotto la superficie della lingua: «sostantivi che […] si possono costruire ad hoc e vengono generalmente riconosciuti e accettati senza difficoltà» e che designano tutto un mondo, anche sociale e morale che il linguaggio identifica: atimpuri, portinfan, nud-infante.

“Sostanzialmente, (scrive ancora il critico Manotta) si allude a una produttività morfologica che, almeno virtualmente, è in grado di creare parole seguendo le leggi dell’analogia linguistica. Operazione dal sapore vagamente necrofilo, visto che viene attuata su un supposto cadavere? In realtà no, poiché viene riscattata da una pietas che non ha nulla a che vedere con la filologia o con l’oggettivazione narrativa, ma che rampolla dalla passione per la poesia, nello specifico per la poesia lirica. Meccanismo autopoietico che saggia, grazie al fluido vivificante dell’inventio poetica, la possibilità che un dialetto in predicato di scomparire possa continuare a essere produttore di nuove virtualità espressive e semantiche. Impresa arrischiata, e un po’ folle, quella di ricreare una lingua, a cui in buona coscienza possono credere solo bambini e poeti”.

ESEMPIO di ottonari formati di parole quadrisilabiche composte (ciupi-nara = talpa; spassa-ora = scopa; sgana-sada = risata) con aggiunta di dodecasillabi a variare l’impianto strofico altrimenti monotono, cioè mix di ottonari e dodecasillabi per le parole composte in rima e, a chiudere, un quadrisillabo (P:169 e 170).

Possiamo allora abbandonarci ai ritmi e ai suoni del dialetto di Meneghello di Pomo pero, anche senza preoccuparci di carpire il significato di ogni parola, che possiamo decriptare successivamente, anche con l’aiuto del vocabolario del dialetto veneto o riascoltando e rileggendo.

Considerazioni conclusive

Quale e quanta ricchezza di espressività linguistica ed emotiva e quanta coloritura sono andate perdute con la scomparsa della magggior parte di queste parole che nel dialetto assumevano sfumature di significato anche in funzione della situazione: di gioco, di amicizia o, al contrario, di rabbia o di baruffa o, ancora, di sfottò e di sarcasmo o di offesa! Molte di queste parole possono avere anche altre sfumature: di affettuosa complicità (pajasso, salbego, stratolto) o diventare delle vere offese, da lavare solo venendo alle mani, dipende da come le si pronuncia e dalle circostanze. Solo nel linguaggio può rivivere quel mondo contadino, per tradizione privo di scrittura, analfabeta, e Meneghello ce lo restituisce con i suoi improbabili personaggi, i modi di dire e le parole cariche di una emozionalità che non sfugge nemmeno a chi il dialetto non lo conosce. Un mondo residuale? Forse. Ma non pare che il mondo che lo va sostituendo sia meno residuale e più vero.

NOTE:

http://poesiaescrittura.blogspot.com/2010/12/i-piccoli-maestri-di-luigi-meneghello.html

https://www.luigimeneghello.org/riservato/F_C_Critici/2019_vanessa_galleri.pdf

  1. Meneghello, Pómo pèro. Paralipomeni d’un libro di famiglia, Rizzoli, Milano,1974

Alessandro Cabianca

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