Incongruenze, errori e licenze poetiche nei libretti delle opere liriche

Abstract

 In questo articolo l’autore, dopo aver accennato ad incongruenze e ad errori (anche grammaticali) riscontrati nei versi di alcuni famosi melodrammi, esprime il proprio giudizio sull’arte letteraria del padovano Arrigo Boito e, in particolare, sull’eccellenza dei suoi libretti. Infatti i testi del Boito sono esempi di pregevole poesia, spesso riportati nelle antologie scolastiche.

 Libretti pregevoli e opere di modesta fattura

Arrigo Boito

Il tentativo di considerare il testo poetico di un melodramma come un’opera letteraria a sé stante diede origine, in passato, a molti errori di giudizio. Ed è senz’altro merito della critica moderna l’aver ristabilito un più corretto criterio valutativo, se è vero che oggi prevale la tendenza, da parte degli esegeti, di giudicare il libretto di un dramma, o di una tragedia lirica, in funzione della musica o, per meglio dire, in simbiosi con essa. In sostanza, pare siano venute meno la sollecitudine e la curiosità, da parte degli studiosi contemporanei, di appurare se i libretti dei melodrammi abbiano valenza e pregio come opere poetiche autonome.

Ha senso chiederci se i cosiddetti librettisti, in auge fino ai primi decenni del secolo scorso, siano da considerarsi veri poeti, o non rientrino, piuttosto, nella categoria degli abili verseggiatori? Certo è limitativo, e fors’anche irrispettoso, definirli indistintamente parolieri, se pensiamo che, nel panorama della letteratura italiana, fu alta la percentuale di quelli che brillarono come autorevoli protagonisti dell’arte poetica o,  quanto meno, come eccellenti drammaturghi e direttori di scena (vedansi Pietro Metastasio, Lorenzo Da Ponte, Felice Romani, Andrea Maffei, Antonio Somma, Francesco Maria Piave, Temistocle Solera, Antonio Ghislanzoni, Arrigo Boito, Giuseppe Giacosa, Giovacchino Forzano, Gabriele D’Annunzio). Anche se non mancarono forti delusioni e clamorosi insuccessi per i nomi più famosi.

I libretti di D’Annunzio, ad esempio, come Fedra per le musiche di scena di Pizzetti, o Francesca da Rimini per le melodie di Zandonai, dopo un’illusoria fortuna iniziale, caddero pressoché nell’oblio, forse perché i rispettivi compositori non seppero impregnarli di quella forza allusiva che, a volte, fa di un melodramma un autentico capolavoro. Al contrario, alcuni testi dalla trama un po’ farraginosa, o poeticamente scialbi e privi di mordente, od eccessivamente prosastici, pensiamo a La Forza del Destino di Piave per la partitura di Verdi, a Manon Lescaut di autori vari (ben cinque, compreso l’editore), per le melodie di Puccini, oppure a Cavalleria rusticana di Targioni-Tozzetti e Menasci per la tavolozza musicale di Mascagni, furono rivivificati ed impreziositi dal genio dei rispettivi compositori, che seppero renderli immortali.

 Alcuni melodrammi, infine, non particolarmente pretenziosi sotto il profilo letterario, ma assolutamente geniali ed efficaci dal punto di vista musicale, devono il loro straordinario successo al fatto che l’ideatore del testo poetico era anche l’autore della musica (per esempio, Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, Mefistofele di Arrigo Boito, oppure la maggior parte delle opere di Richard Wagner).

Requisiti del bravo librettista

 Ma, a parte la necessaria attitudine a scrivere versi, quali altri requisiti doveva possedere un librettista? In genere, doveva avere sufficienti cognizioni relative alla teoria musicale, al solfeggio, al

La Casa Natale di Arrigo Boito a Padova

canto, all’arte della composizione e della strumentazione (meglio se sapeva arrangiarsi al pianoforte); oltre alla regola delle unità aristoteliche (luogo-tempo-azione), era tenuto a conoscere la nomenclatura e i trucchi del palcoscenico, nonché le esigenze e i tempi dell’azione drammatica. Gli si richiedeva, poi, che fosse in grado, in taluni casi, di saper tradurre e leggere opere teatrali di autori stranieri. Aggirarsi con disinvoltura negli ambienti dei teatri lirici e mantenere rapporti di cortesia e di collaborazione con i compositori, i direttori d’orchestra, i cantanti, i registi e gli editori erano altrettanti requisiti essenziali per la sua professione. Anche se, lavorando a fianco di un musicista per lunghi periodi, e dovendone subire i capricci e gli umori caratteriali, a volte la sua pazienza era messa a dura prova. Ciò succedeva, di solito, quando il compositore interveniva sul testo poetico, apportandovi tagli e modifiche a piacimento. Il librettista, allora, toccato nella sua dignità d’artista, tentava di venire a patti con l’interlocutore e, dopo accese discussioni, nel migliore dei casi se ne andava sbattendo la porta. Ma in situazioni estreme, allorché la rottura del rapporto appariva insanabile, decideva di recedere dal contratto.

Sciatterie nei libretti di Piave

Ecco cosa sembra sia accaduto, un giorno, a Giuseppe Verdi, contrariato dalla sciatteria di alcuni versi poetici prodotti da Francesco Maria Piave.[1] Nel 3° atto del Rigoletto, c’è una scena in cui il duca di Mantova (tenore), ospite nella taverna di Sparafucile (basso), cinico sicario che uccide a pagamento, e della di lui sorella Maddalena (contralto), adescatrice delle vittime che bussano alla sua porta, viene invitato a salire in granaio, dove gli è stato preparato un giaciglio per la notte sotto un balcone privo di imposte. Il duca, fregandosi allegramente le mani, esclama: Si dorme all’aria aperta? bene bene… Un brutto endecasillabo, che il talento di Verdi non riesce a rendere in musica con adeguata efficacia. È pur vero che si tratta di un recitativo, cioè di un canto tendente a riprodurre, attraverso una sillabazione intonata, la naturalezza e la flessibilità della lingua parlata; ma se il verso è piatto e, per giunta, esprime un concetto banale, anche la musica esce monotona o scialba.

Il buon Verdi prova a capovolgere il periodo ritmico, avendo però l’avvertenza di salvaguardarne la metrica, così: Bene bene, si dorme all’aria aperta! Niente da fare: la variante non risolve il problema; anzi, lo peggiora. Pazientemente, rimescola le parole: Bene, si dorme all’aria aperta, bene! Peggio che andar di notte. Allora manda a chiamare il librettista, che, solitamente mite ed accondiscendente, questa volta non vuol sentire ragioni: la sua poesia non si tocca. Per evitare, dunque, spiacevoli discussioni, il Maestro s’arrende e, a malincuore, musicherà il menzionato verso rispettandone la scrittura originaria. Ancor oggi, ascoltando quel travagliato passaggio dell’opera, proviamo una stretta al petto.

Ma non è tutto. Un giorno Verdi, in procinto di sedersi al pianoforte, apre il libretto del suo collaboratore e rilegge le parole di quell’arietta che, in seguito, diverrà famosissima: La donna è mobile / qual piuma al vento: / muta d’accento / e di pensier. Sono versi eccellenti, che ben si prestano ad essere musicati con un movimento vivace (“allegretto” sulla partitura) ed un motivo estremamente orecchiabile. Ma mentre affonda le dita sulla tastiera, per ricavarne qualche accordo, si chiede perplesso: “Dove avrò mai sentito concetti simili? Sembrano ispirati ad una storica frase di Francesco I di Francia…”.[2] In realtà, il maestro non saprà mai che la matrice originale di quei versi è una strofa delle “Stanze” del Poliziano, alla quale, forse, il librettista s’è ispirato. L’ottava del famoso poeta quattrocentista, infatti, comincia così: …che sempre è più leggier ch’al vento foglia, /e mille volte al dì vuole e disvuole: / segue chi fugge, a chi la vuol s’asconde, / e vanne e vien, come alla riva l’onde.

E, sempre a proposito del “Rigoletto”, ecco un’incongruenza abbastanza eclatante, ma alla quale il pubblico, in genere, non presta particolare attenzione. Alla fine del 3° atto, Sparafucile, su insistente richiesta della sorella Maddalena, durante una notte di lampi e di tempesta, uccide, al posto del duca, un viandante che ha bussato alla taverna per chiedergli ospitalità: si tratta, di fatto, della figlia di Rigoletto, in abiti maschili. Quando il povero buffone ritorna da Sparafucile per riprendersi quanto pattuito, credendo che il corpo consegnatogli in un sacco dal sicario sia effettivamente il cadavere del proprio padrone e signore, si carica il tragico fardello sulle spalle e s’avvia per gettarlo nelle acque del Mincio. Ma, giunto sulla riva del fiume, trasale, perché sente la voce del duca di Mantova che, di lontano, canta La donna è mobile. Chi ci sarà, dunque, in quel sacco? Alla tragica scoperta, il vecchio, abbracciando la figlia agonizzante, grida disperato: L’assassino mi svela… Chi t’ha colpito?  Come se non sapesse che l’uccisore era lo spregiudicato Sparafucile!

Incongruenze nei libretti di Illica e Giacosa

Arrigo Boito e Giuseppe Verdi

E che dire del celeberrimo testo de La Bohème per la musica di Giacomo Puccini? Scritto da Luigi Illica e da Giuseppe Giacosa, due “pezzi da novanta” della librettistica di fine Ottocento, non è però privo di qualche incongruenza. È noto che nella lingua francese non si usa il “lei”, ma, al suo posto, s’impiega il “voi”. Ebbene, nella storia di Rodolfo e Mimì, ambientata in Francia verso il 1830, i personaggi ora rispettano la regola del “voi” ed ora passano, con sorprendente disinvoltura, a un “lei” che in quel Paese non esiste. Così, ad esempio, all’inizio del 1° atto, il pittore Marcello (baritono) si rivolge al vecchio padrone di casa, Benoit (basso), venuto a riscuotere l’affitto, con queste parole: …or via, / resti un momento in nostra compagnia. / Dica: quant’anni ha, / caro signor Benoit?, salvo poi passare al “vous” francese nelle battute finali: È la morale offesa che vi scaccia! Sbadataggine anche nella celebre romanza di Rodolfo (tenore), che dirà a Mimì (soprano): Che gelida manina! / Se la lasci riscaldar. / Aspetti, signorina, / le dirò con due parole… Ma sul finire dell’aria, ecco la discordanza: Or che mi conoscete, / parlate voi, deh parlate. Chi siete? “Licenze poetiche” si dirà, nella benevola intenzione di giustificare i nostri autori…

E non è una nostra scoperta che, a cominciare proprio da questa scena dell’opera, si avverte, di tanto in tanto, una marcata differenza di stile dei due librettisti. Se il Giacosa, ben più anziano del collega e con grande esperienza di drammaturgia alle spalle (autore, tra l’altro, di “Una partita a scacchi”, “Tristi amori”, “Come le foglie” ecc.), scriveva versi e prose nei moduli del naturalismo che andava allora affermandosi, con un taglio meno aggressivo del Praga, meno plastico del Verga, meno analitico del Bertolazzi, ma forse ad essi superiore per equilibrio descrittivo e per fusione ed omogeneità di toni, il giovane Illica, appartenente al gruppo che si raccoglieva intorno a Boito, detestava gli equilibri e le mezze misure e, non di rado, esordiva in modo passionale ed irruento. A fronte, dunque, dei versi pacati e un po’ prosastici del Giacosa, che scrive: Altro di me non le saprei narrare. / Sono la sua vicina / che la vien fuori d’ora a importunare, egli attacca con enfasi altamente lirica, quasi delirante: O soave fanciulla, o dolce viso / di mite circonfuso alba lunar, / in te ravviso / il sogno ch’io vorrei / sempre sognar! / Fremon già nell’anima / le dolcezze estreme, / nel bacio freme amor!

Saremmo tentati, inoltre, di muovere qualche bonario commento ironico a proposito della “strana” circostanza creata dai librettisti nel secondo quadro dell’opera, quando la giovane brigata, composta, com’è noto, da Mimi, Musetta, Marcello (pittore), Rodolfo (poeta), Schaunard (musicista) e Colline (filosofo), prende posto ai tavoli esterni del Caffé, al Quartiere Latino, scherzando e filosofeggiando con allegria, nonostante il clima rigido della vigilia di Natale.

È noto, infine, che i contrasti e le polemiche tra Puccini e i suoi librettisti erano piuttosto frequenti. Significativa, a tal proposito, è la lettera che Luigi Illica spedì all’editore Ricordi dopo la prima di Tosca, accolta dalla critica con molte riserve. Il poeta, amareggiato per l’accaduto, attaccava a fondo il musicista di Torre del Lago, lasciando intendere che, se la rappresentazione aveva sortito un mezzo fallimento, forse la colpa si doveva esclusivamente a Puccini, il quale “ha mancato di rispetto al lavoro degli umili suoi collaboratori”.

Parolacce velenose in “Pagliacci”

La copertina della prima edizione dei Pagliacci

A questo punto, diamo una sbirciatina all’opera di un altro famoso librettista-compositore, Ruggero Leoncavallo, che, nel 1° atto dei Pagliacci, si lascia sfuggire un grossolano errore di grammatica. Il protagonista Canio (tenore), infatti, togliendosi dalla cintura uno stiletto e puntandolo furente contro la moglie Nedda (soprano), che lo tradisce, grida: E se in questo momento qui scannata / non t’ho già, gli è perché, pria di lordarla / nel tuo fetido sangue, o svergognata, / codesta lama… L’autore, preso dalla foga al pari del suo personaggio, dimentica il corretto impiego dei dimostrativi, usando codesta al posto di questa. La distrazione, di per sé, non ci sorprenderebbe più di tanto, se non fossimo al corrente che, dopo aver seguito all’Università di Bologna i corsi del Carducci, il Leoncavallo s’era laureato in Lettere a pieni voti.

Ma nel testo dei Pagliacci vi sono altre curiosità degne (o indegne?) di nota. Sentite, ad esempio, quante parolacce velenose, quanti anatemi escono dalla bocca dei protagonisti nell’arco di circa un’ora e dieci minuti di spettacolo: Aspide!… Hai l’animo / siccome il corpo tuo difforme, lurido (Nedda, Atto 1°, Scena II); Mi fai schifo e ribrezzo (Nedda, Atto 1°, Scena IV); E se in questo momento qui scannata /non t’ho già, gli è perché pria di lordarla / nel tuo fetido sangue, o svergognata (Canio, Atto 1°, Scena IV); Vo’ il nome dell’amante tuo, / del drudo infame a cui ti desti in braccio, / o turpe donna! (Canio, Atto 2°, Scena II); …e il cor che sanguina / vuol sangue a lavar l’onta, o maledetta! (Canio, Atto 2°, Scena II), Va’, non meriti il mio duol, o meretrice abbietta; / vo’ ne lo sprezzo mio schiacciarti sotto i piè! (Canio, Atto 2°, Scena II).

Arrigo Boito, vero poeta che brilla di luce propria

Locandina del Mefistofele

Un cenno a parte merita Arrigo Boito, autore, tra l’altro, del Mefistofele e del Nerone. I versi dei suoi libretti celano quasi sempre un gioco segreto: sembrano, per esempio, novenari, ma si possono scandire anche come decasillabi. “Quando crediamo che il poeta sia tutto preso dal sentimento della sua poesia, – osserva il critico Mario Oliveri – egli sta invece segretamente congegnando cabale ritmiche. E, come la ritmica, così è spesso puro diletto anche l’espressione verbale”. Non possiamo che essere d’accordo con questo giudizio: il Boito, rappresentante sui generis della Scapigliatura milanese, era un poeta “alchemico”, un mago della parola. Ma qualcuno, prendendo in esame il libretto del suo Otello, mirabilmente musicato da Giuseppe Verdi, ebbe a scrivere che, nel sintetizzare il capolavoro di Shakespeare, aveva partorito un aborto dalle soluzioni lessicali e ritmiche spregiudicate e stravaganti. Un giudizio, a nostro avviso, alquanto ingeneroso, se pensiamo che certe parti dell’Otello (es.: Ave Maria, Atto 4°, Scena II), o del Mefistofele (es.: Ecco il mondo – vuoto e tondo, Atto 2°, Scena II), sono finite nelle antologie scolastiche come esempi di pregevolissima poesia.

Arrigo Boito, nato a Padova nel 1842 (la sua casa natale, contrassegnata da una vistosa lapide, è in Via Cavour, nei pressi del Gran Caffè Pedrocchi), conobbe, tra gli altri musicisti famosi, Rossini e Berlioz. Scrisse libretti d’opera, oltre che per se stesso, anche per Verdi, Ponchielli, Catalani, Faccio, Dominiceti, Coronaro, Bottesini, Mancinelli, Palumbo, San Germano e Pick-Mangiagalli. Anche le parole dell’Inno delle Nazioni, musicato da Verdi, recano la sua firma. Ma il suo lavoro più originale è una lunga favola in versi (un poemetto), intitolata Re Orso, in forma di spericolato polimetro.

Note

[1] – L’episodio, che non trova riscontro nelle biografie ufficiali di Giuseppe Verdi, ci è stato riferito. Lo riportiamo, quindi, con beneficio d’inventario.

[2] – Francesco I di Francia: Souvent femme varie, / bien fol et qui s’y fie. E nel dramma “Le Roi s’amuse”, da cui è tratto “Rigoletto”, Victor Hugo scrive: Une femme souvent / n’est qu’une plume au vent

Enzo Ramazzina

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