La padovanità del Palladio: da “insolito garzone” conflittuale alla sua realizzazione a Vicenza

Abstract

Sulla formazione padovana come scalpellino di Andrea di Pietro, detto “della Gondola” per l’imbarcazione alla veneziana usata dal padre, si è sempre saputo poco. Un saggio abbastanza recente di Claudio Bellinati e non solo, ci illumina finalmente su questo aspetto con molti utili particolari. Come riportano le cronache, Andrea di Pietro, il futuro Palladio, si era mostrato presto quale “insolito garzone” alla scuola degli scalpellini a Padova, e questo lo aveva portato a non essere un allievo docile e regolare come avrebbe voluto il suo maestro, peraltro vicentino, con il quale per ben due volte ebbe a scontrarsi; dopo di che l’atelier se lo scelse (quasi) da solo, a Vicenza, d’accordo con il padre e (forse) il suo importante padrino di battesimo. A Vicenza, in contrà Pedemuro, Andrea di Pietro, con protettori di vaglia divenne “il Palladio” in architettura, seguace della dea Minerva o Pallade, così definito dal nobile e letterato vicentino e suo mèntore, Giangiorgio Trìssino, con grandissime soddisfazioni personali e una carriera dai frutti duraturi e internazionali. Senza mai tuttavia dimenticare la città d’origine.

Vincenzo De Grandis, scultore, padrino del piccolo Andrea

Volendo approfondire le fonti sulla padovanità del Palladio, alias Andrea di Pietro “della Gondola”, troveremo presto un nome che è risultato decisivo per il suo avvenire: il “padrino” di battesimo Vincenzo De Grandis, scultore e maestro d’origine vicentina: un abbraccio rituale che chiameremmo provvidenziale nel susseguirsi della carriera di uno scalpellino originale e di “insolito garzone”. Con quell’atto Vincenzo si impegnava, come dagli statuti dell’epoca, a soccorrere il “figiozo” in tutte le difficoltà che il ragazzo avesse incontrato nella vita.

L’amicizia del padre con Vincenzo era di lunga data, da quando il nonno di Andrea, Francesco, ortolano, abitava alle Torreselle, proprio vicino ai De Grandis. Da ricordare che Andrea era stato battezzato presso l’affrescato Oratorio di San Michele, appartenente a quell’antica chiesa parrocchiale, già esistente nel VI° secolo, ma riedificata dopo l’incendio del 1392, in seguito alla guerra dei Visconti contro i Carraresi, oggi ridotta a pochi ruderi. Quella sarebbe stata la parrocchia di Andrea di Pietro. Tra parentesi gli affreschi dell’Oratorio sarebbero stati salvati dopo un’imbiancatura generale, presumibilmente in tempi di peste, affreschi attribuiti come opera insigne a Jacopo da Verona. La parrocchia rimase tale fino al 1808, dopo di che fu soppiantata da quella del Torresino. Il giorno del battesimo (da non confondere come spesso si fa con quello della nascita), risulta il 30 novembre 1508.

Il padre, Pietro “della Gondola”, mugnaio

Pietro “della Gondola” era sposato con tale Marta, detta “la sota” perché claudicante, che compare una sola volta nei documenti. Andrea potrebbe dunque essere stato orfano della madre già da adolescente. Al tempo la famiglia abitava in borgo della Paglia, laterale dell’odierna via Tiso da Camposampiero. Lungo il naviglio sorgevano dei porticcioli per il trasporto e lo scarico, tra l’altro, della pietra di Vicenza per vari usi, e questo spiega la presenza di botteghe di scalpellini vicentini in zona. Per comprendere come siano andate veramente le cose nell’apprendistato di Andrea bisogna segnalare che a Vicenza, in contrà Pedemuro, esisteva una rinomata bottega di lapicidi e scultori gestita da Giovanni di Giacomo da Porlezza e Girolamo Pittoni, questi anche noto scultore.

La fraglia degli scalpellini

Gian Giorgio Trissino

Giacomo da Porlezza aveva lavorato a Padova almeno dal 1480, e apparteneva alla fraglia degli scalpellini a cui faceva parte anche Vincenzo De Grandis. Il trasferimento di Andrea a Vicenza non sarebbe avvenuto quindi a caso. Dovevano forse esser intervenuti quel Porlezza e forse il Pittoni, gestori dell’atelier. Intanto Pietro dalla Gondola il 27 aprile 1509 con il figlio e con la moglie Marta era ritornato, sempre come mugnaio, ad abitare alle Torreselle, la contrada del padre Francesco. Era tempo di guerra, quella di Cambrai contro Venezia, e questo può spiegare gli spostamenti di Pietro. La città era tutta in subbuglio ed era meglio mettersi al riparo il più possibile. Lo stesso castello dei Carraresi era stato occupato. Dalle Torreselle Pietro traslocò ancora in una contrada più tranquilla, quella di Sant’Eufemia, proprietà dei Mocenigo, che Andrea adulto avrebbe ricordato con piacere, e qui avrebbe abitato per qualche tempo, anche il suo futuro mèntore Giangiorgio Trìssino, sodale della famosa famiglia veneziana. (Non viene più menzionata la moglie Marta, forse deceduta nel frattempo). Pietro lavorava presso il mulino al ponte detto “Pidocchioso” di Santa Sofia. Sicuramente papà Pietro portava con sé il piccolo Andrea, che attraverso i vari canali del “Medoacus Minor”, il Bacchiglione (oggi Piovego), poteva ammirare le varie parti monumentali della città e farsene un’idea, e pure assimilare gli stili della Padova cinquecentesca. Tra l’altro era in ricostruzione la terza basilica di Santa Giustina, e a breve, anche la piccola corte del mecenate Alvise Cornaro, dalla controversa nobiltà, vale a dire la Loggia e l’Odéo, punto fisso dell’architettura della Padova rinascimentale.

Loggia (a sinistra) e Odeo Cornaro (a destra)

Nel 1521 Pietro, finiti gli sconquassi della guerra contro Venezia finalmente libera da nemici, era ritornato nell’abitazione primitiva di borgo della Paglia. Il figlio, ormai tredicenne, dimostra molta dimestichezza con “le matematiche”, come afferma l’arciprete della cattedrale, prete Paolo Gualdo, che lo definisce anche “spiritoso”. Non si hanno tuttavia ancora testimonianze di una sua inclinazione all’architettura, ma si può riferire alla sua puerizia quell’attestato “magnum in parvo” (capace di disegnare il grande in piccolo), secondo il motto di William Halfpenny. Non si conoscono interventi del padrino Vincenzo, ma sta di fatto che Andrea frequenta anche l’antica cattedrale patavina per i primi rudimenti scolastici. Qui l’amico Pierino, con il sacerdote Girolamo Gabrielli, presenta Andrea al “lapidarius”.

Andrea “ragazzo di bottega” come “tajapiera”

Bartolomeo Cavazza, di Sossano, con bottega in contrà Ponte dei Tadi, il 31 ottobre 1521, con il padre Pietro perché vi facesse lavorare il figliolo per un periodo di sei anni. Il Cavazza s’impegnava a istruirlo nella sua arte di lapicida, gli avrebbe fornito vitto e vestiario, ma alla sera l’apprendista se ne doveva tornare a casa, peraltro non lontana.

Tutto bene in quell’apprendistato, a prima vista promettente? Per niente. Si sa solo che Andrea si sarebbe “ribellato” al maestro ma i motivi non sono stati rivelati. Si è scritto anche di uno “scontro” che si presume verbale, forse incompatibilità di carattere, ma la conseguenza fu che Andrea se ne andò a Vicenza con il padre presso la bottega di Pedemuro. Nei suoi famosi “Quattro libri sull’architettura” (trattato incompiuto), Andrea non farà alcun riferimento allo “scontro” con il Cavazza. Quel trasferimento doveva avere motivazioni fondate se padre e figlio presero la via per la città berica, ma nulla è trapelato. Tocca adesso ritornare indietro per il fatto che il Cavazza non si diede affatto per vinto. Aveva in mano un contratto e voleva farlo valere. Infatti, arrivato a Vicenza il giorno 28 aprile 1523, per mezzo del notaio vicentino Bortolo Carpo, il giovane Andrea e il padre firmavano un documento in cui l’apprendista si impegnava a far ritorno in contrà dei Tadi per altri tre anni, a iniziare da due giorni dopo la firma del nuovo contratto. Testimoni personaggi vicentini e padovani.

Dopo la prima fuga dalla bottega del Cavazza, una seconda fuga, definitiva

I dieci libri dell’architettura di M. Vitruvio tradotti e commentati da monsignor Barbaro, con i disegni di Palladio, 1556.

Tutto pareva accomodato, ma non tutto doveva essere stato concluso in pace. Dopo qualche mese il riottoso giovane scalpellino fuggiva una seconda volta da Padova con il padre. Stavolta la fuga era definitiva. C’era di mezzo il “padrino”? Non si può sapere. Andrea lasciava alle spalle la sua “patavinitas”, il padre, e tutte le eccellenze artistiche e monumentali che aveva potuto conoscere e assimilare nella sua città d’origine. Si attesta pure che nel 1524 il Porlezza avrebbe iscritto Andrea nella fraglia degli scalpellini della città. Il padovano era diventato vicentino d’adozione. Nello stesso periodo, come accennato, per merito dell’umanista e proprietario terriero padovanizzato Alvise Cornaro, stava prendendo piede a Padova l’architetto veronese Giovanni Maria Falconetto (1468-1534), che con il commediografo rusticano Angelo Beolco detto il Ruzante (1496?-1542), era di casa presso la piccola reggia al Santo.

Per comprendere qualcosa di più sulle vicissitudini di Andrea e della famiglia, si deve addirittura ritornare all’anno 1480, quando nella fraglia dei lapicidi di Padova compare un Giacomo quondam [fu] Giuliano, abitante nella contrada di San Leonardo, che altri non era che il padre di Giovanni da Porlezza, con atelier a Pedemuro. Quel Giacomo abitò a Padova fino al 14 gennaio 1488. Uno scalpellino ben noto in città e che aveva lavorato anche per i monaci di San Giovanni da Verdara per rifornirli di ben 84 colonne “tutte rosse”. E qui entra ancora il ballo il padrino di Andrea, si ribadisce probabilmente regista della sistemazione definitiva a Pedemuro, per essere in amicizia con il figlio Giovanni di Giacomo da Porlezza. In conclusione Andrea non era andato a Vicenza in cerca di lavoro ma in virtù delle conoscenze acquisite in famiglia. Ovviamente dopo il 1524 il Cavazza non ritenne più opportuno riavere per sé il giovane Andrea, ritenendo il suo addio irrevocabile.

L’incontro con il nobile vicentino Gian Giorgio Trissino che gli dà il nome di “Palladio”

Presso la bottega di Pedemuro il giovane Andrea ebbe occasione di conoscere il nobile e letterato Giangiorgio Trissino, abitante in zona, a Cricoli per l’esattezza, che accortosi delle doti di quell’ “insolito garzone”, lo avrebbe portato tra la sua cerchia di artisti e amici, definendolo Palladio, come generato dalla dea Pallade o Atena, protettrice delle arti e degli artisti, ma qui ci si avvia in un’altra splendida storia.

Non sarà male ricordare che il Trissino, come buona parte dei magnati vicentini, durante la guerra di Cambrai aveva parteggiato con gli imperiali, per cui dopo la rivincita di Venezia subì un breve ma dorato esilio con la confisca dei beni: ne approfittò per frequentare corti europee e italiane, soprattutto a Ferrara con Lucrezia Borgia e a Firenze, presso l’Accademia degli Orti Oricellari di Bernardo Rucellai, cognato del Magnifico.

Grazie al papa Medici Leone X, ottenne l’amnistia dal doge Loredan per il “dilectus filius”, e il Trissino poté tornarsene, nel 1516, esultante per nuovi incarichi, nella sua stupenda villa-castello di Cricoli. Tutto questo per accogliere una tradizione che vuole, per il rinnovo della villa in forme rinascimentali senza toccarne la pianta, la partecipazione del giovane Andrea, “fiolo de Piero da Padova, monaro”. Da questo primo contatto sarebbe scaturita la carriera di uno dei più famosi architetti del Rinascimento italiano, con il tempo di fama internazionale.

Nota:

Fonte principale: Bellinati C.: La “patavinitas” del giovane Andrea di Pietro “dalla Gondola” (1508-1523) poi Andrea Palladio, in “Padova e Andrea Palladio-Magnum in Parvo”, Padova 2008

Gianluigi Peretti

Immagini

Written by