Mantegna e la Cappella Ovetari: autobiografia e rivelazione di un genio

Abstract

La studiosa di Mantegna, al suo attivo un’innovativa lettura della Camera degli Sposi (Due personaggi segreti alla Corte dei Gonzaga, cleup, 2019), affronta qui l’unico affresco di Mantegna, sopravvissuto al bombardamento (1944) della Cappella nella chiesa degli Eremitani di Padova: Il martirio e trasporto di San Cristoforo. Ne scaturisce una forte connotazione autobiografica, che vede l’artista in scena, assieme agli amici del cuore e della mente: il poeta Janus Pannonius e l’umanista Galeotto Marzio. Nell’estendere la ricerca agli affreschi di Mantegna, andati distrutti – se ne ha un reportage fotografico – l’autrice non solo vi ha colto l’emergere del “nuovo” Mantegna, ma ha scoperto il suo primo autoritratto nascosto. Finora si conosceva solo quello della Camera degli Sposi.

Una lettura à rebours

Onoreremo, certamente, quanto il titolo promette. Anticipiamo invece, subito, il senso del sottotitolo. La nostra sarà una lettura à rebours (a ritroso), necessariamente. Della Cappella Ovetari, tutta affrescata da cima a fondo e, più precisamente – per quanto riguarda Mantegna – degli affreschi, che adornavano il vano antistante l’abside, è rimasto solo quello, che chiude le Storie di San Cristoforo: Il martirio ed il trasporto del corpo.
Tutta la Cappella, come si sa, fu distrutta da un bombardamento (il “fuoco amico” dell’11 marzo 1944)[1] e l’affresco si salvò, perché, deteriorato, era già stato staccato.[2]
Per fortuna, poco prima del bombardamento, fu eseguito un completo servizio fotografico della Cappella, per cui ci è possibile fare questa nostra lettura à rebours.
Possediamo pure due copie dell’affresco “sopravvissuto”, copie che utilizzeremo con profitto.
Si scoprirà così che l’affresco, che chiude le storie di San Cristoforo, non è il “prevedibile” risultato di tutti i lavori precedenti, bensì il loro totale superamento, perché qui Mantegna – vedi il titolo – accede alla rivelazione del suo genio.
Le complicatissime vicende della Cappella[3] non rispetteranno i tempi di esecuzione, stipulati nel contratto: si era prevista una durata di tre anni … ce ne vollero dieci.
Questi dieci anni (1448-1458), che vanno dai 17 ai 27 anni di Mantegna (1431-1506), costituiscono il periodo aureo di tutta la sua vita.
Riscattatosi da Squarcione,[4] affronta, da uomo libero, il suo primo cimento importante.
Il matrimonio con Nicolosia Bellini (1453) non solo lo introduce nella bottega più rinomata di Venezia, ma gli procura un referente culturale d’eccezione: Jacopo Bellini, il patriarca, fondamentale, come si dirà nel terzo capitolo, per la sua maturazione artistica.

Sul fronte della sua maturazione culturale, infine, sono due le amicizie da sottolineare, e perché fanno parte integrante di tutta la nostra lettura, e perché accompagneranno Mantegna per tutta la sua vita.
La prima, in ordine di tempo – probabilmente quando ancora lavorava sotto Squarcione – iniziò sulle strade di Padova, quando si imbatté nella stupefacente figura di Galeotto Marzio (Narni 1427?-Boemia 1497?), un Ercole redivivo, un giovane di grande statura e di corpo robustissimo, dal linguaggio mordace e dal libero pensiero.[5] Galeotto, di nome e di fatto, perché fu lui a fargli conoscere Janus Pannonius (1434-1472).[6]
Per i suoi studi superiori, infatti, Galeotto si era spostato a Ferrara per frequentare la celebre scuola-convitto di Guarino Guarini (1374-1460), umanista e grecista di fama europea, che il Marchese d’Este, l’elegantissimo Leonello (1407-1450), era riuscito ad averlo alla sua corte.
Ed il destino volle che, dall’Ungheria, approdasse, proprio qui, il tredicenne Janus, orfano di padre, ma nipote di un potentissimo e coltissimo zio: Janos Vitéz (1408-1472), allora Vescovo di Varad,[7] desideroso che il ragazzo fosse adeguatamente preparato per la sua, già segnata, carriera.[8]
Nel 1449 Mantegna è a Ferrara, chiamato dal Marchese per un ritratto e, finalmente, conosce Janus di persona.
Che cose straordinarie Galeotto gli aveva raccontato di lui! Pupillo del Maestro s’era presto rivelato essere un fanciullo prodigio: dopo un solo anno sapeva tradurre gli autori greci in latino; dei classici sapeva ripetere, senza alcun errore e dopo un solo ascolto, qualsiasi testo poetico a lui sconosciuto; improvvisava versi con tale velocità, che i suoi compagni non riuscivano a stargli dietro nella trascrizione.
Aggiungiamo, per conoscere l’animo segreto di Janus, qualche suo verso da un’elegia, indirizzata a Galeotto prima di far ritorno in Ungheria (1458):

Ci unì una grande, ininterrotta consuetudine di amicizia,
da quella, col tempo, crebbe il nostro amore.
…….

Di chi potessi fidarmi, non avevo nessuno, eccetto te,
nessuno che volesse avere cura di me.
Tu facevi parimenti le veci del fratello, dello zio,
ed eri al posto della madre, al posto del padre.[9]

 Stiamo completando il profilo di un trio di amici che vedrà, insieme, il pittore, l’umanista ed il poeta: un trio di “amici per la vita”, come li abbiamo chiamati,[10] che per l’appunto ritroveremo nel grande affresco rimastoci.
Mantegna incarna dunque, al massimo, l’artista del nostro Umanesimo e primo Rinascimento: non “solamente” un pittore, ma un uomo aperto al sapere ed a tutte le forme d’arte. Quale fortuna avere, come amici e mentori, gli eccezionali Galeotto e Janus!
Il lettore perspicace avrà già capito che, nel nostro affresco, sarà Galeotto ad … incarnare San Cristoforo, il gigantesco traghettatore di Cristo.

Tornando alla Cappella Ovetari e ai rapporti tra i due soci – Pizolo (10 anno più vecchio) e Mantegna – essi divennero presto così conflittuali da necessitare un arbitrato (1449) per definire i rispettivi spazi lavorativi. E l’arbitrato assegnò a Mantegna i primi cinque riquadri delle Storie di san Giacomo – il sesto, la Decapitazione, a Pizoloe il completamento dei due Santi già iniziati nell’abside. Quest’ultima era tutta destinata a Pizolo, sia per gli affreschi che per la Pala scultorea.

Anche Imperatrice Ovetari intervenne, ingaggiando nuovi aiuti – Bono da Ferrara, Ansuino da Forlì – ai quali si affidarono le storie di San Cristoforo.
Ma a sconvolgere ancora una volta i lavori ci pensò il Destino ed il carattere rissoso di Pizolo. Egli muore nel 1453 per le ferite riportate in uno scontro.
Mantegna si trovò così finalmente solo a governare l’impresa: insperabilmente “il pezzo forte” della Decollazione di San Giacomo diventava suo: tutta la parete di sinistra sarebbe stata di una mano sola!  Per quella di destra si riserva l’affresco finale, nella posizione più prestigiosa di tutte: quella che, per prima, accoglie il visitatore.

Ormai occupatissimo altrove, e con ottime prospettive future[11] eccolo slanciarsi nel rash finale. Ha già in mente cosa fare per il suo San Cristoforo. Allestirà una scena rivoluzionaria: una scena aperta, quella stessa della coeva Pala di San Zeno, il polittico che lo consacrò fra i Grandi del Rinascimento.
Per lo sfondo della grande scena aperta ha però bisogno di un buon prospettico. Lo faremo emergere nel secondo capitolo.

Quanto abbiamo sinteticamente raccontato chiarisce la grande differenza tra gli affreschi della parete di sinistra/Storie di San Giacomo e quelli della parete di destra/Storie di San Cristoforo. La parete di sinistra risulta armonica, calibrata, prospetticamente perfetta; quella di destra è, altrettanto chiaramente, e inevitabilmente, disomogenea.

Dedicheremo il secondo capitolo al commento dettagliato del Martirio e trasporto del corpo di San Cristoforo. Qui ci preme anticipare come l’artista, operando in piena libertà, abbia fatto emergere la cifra del suo genio, in cui realismo e visionarietà sono dei registri espressivi equipollenti e da mischiare a volontà.
E così ci capiterà di accettare la duplice ed illogica presentazione delle fattezze del Santo: nella scena di sinistra, quella del martirio,[12] è un giovane, atletico uomo, messo alla … cornice;[13] in quella del trasporto del corpo, un essere abnorme, un colosso vero e proprio, che ingombra tutta la via e non si sa come rimuovere.
Evidentemente la forza dell’invenzione persuade al di là di ogni ragionamento.[14]
E comunque Mantegna previene l’eventuale perplessità del visitatore, trasformando la meravigliosa colonna ionica, al centro del proscenio, in un divisorio temporale.
Significativo è il fatto che l’artista collochi proprio qui, nel centro prospettico dello spazio da lui stesso aperto, il suo autoritratto[15]: il suo volto, coperto con il classico berretto rosso del pittore, guarda verso di noi: prassi diffusa nel nostro Umanesimo e che esplicita la paternità dell’opera.[16]
Questo è l’ultimo, in ordine di tempo,[17] dei tre autoritratti che la Cappella presentava!
Degli altri due, uno è nascosto. Lo abbiamo scoperto di recente. È dunque una novità assoluta a cui dedicheremo la conclusione del nostro scritto. Certo ci farà rimeditare sull’unico autoritratto nascosto fin qui conosciuto: quello della Camera degli Sposi.

Ma veniamo all’autoritratto “ben in vista”. Esso si trovava sul basamento di sinistra dell’arco trionfale d’accesso all’abside ed era in parallelo con l’autoritratto di Pizolo, sul base di destra. I due ritratti avevano, infatti, una finalità pratica: segnalare i due diversi artisti nei loro diversi campi operativi.
Tutti e due i ritratti ci sembrano, però, fortemente rimaneggiati.
Il volto di Pizolo è in puro stile Anni ’20 (del Novecento).
Il volto di Mantegna non ci convince per più ragioni.
A parte la cura nell’evidenziare le tumide labbra, quale sicuro segno fisiognomico, è tutta la resa della faccia che non va.
Si nota un certo appesantimento fisico, borse sotto gli occhi, un’espressione quasi scorata. Insomma è l’immagine di un uomo precocemente invecchiato[18] e che ci evoca, semmai, il busto di bronzo della cappella funeraria di Mantegna nella basilica di Sant’Andrea a Mantova.[19]
No. Il Mantegna degli anni della Cappella Ovetari non può essere questo.
Autentica, e geniale, rimane la ripresa di spalle, la torsione del volto con quel moto d’aria, che ci fa vivere tutta la persona.

 Martirio e Trasporto del corpo di San Cristoforo.

Abbiamo più volte detto quanto straordinario sia questo affresco di Mantegna. Ed il visitatore, ancora legato alla visione “romantica” dell’artista, si aspetta che l’opera tanto ammirata, sia tutta da attribuirsi, esclusivamente, al suo genio.
Desideriamo amabilmente prepararlo a capire che, spesso, non è così; e soprattutto di fronte ad opere che richiedono competenze specifiche, come è il caso dell’allestimento della grande scena aperta che chiude le storie di San Cristoforo.
Cosa spinse Mantegna a fare a meno dei tradizionali riquadri? Folgorazione personale e amicizie stimolanti, come quella con un pittore, suo coetaneo, che si era specializzato nell’arte della prospettiva, la novità espressiva del secolo.
Se l’Alberti ne era stato il teorico – il De pictura (Sulla pittura) è del 1435/1436 – furono gli intarsiatori in legno ad applicarla e diffonderla, creando così una cultura prospettica; e questo, soprattutto in area veneta e nell’Italia del nord.
Tutto merito dei fratelli Canozi di Lendinara, Lorenzo e Cristoforo, così celebri in quest’arte da ispirare un’opera, la Laudatio perspectivae (Lode della prospettiva) di Matteo Colacio (1475), che descrive uno dei loro capolavori: le tarsie del Coro della Basilica del Santo a Padova (1462-1464), distrutte da un incendio a metà del Settecento. [20]
Ma la tarsia quattrocentesca non è solo espressione della capacità di creare un illusionismo spaziale. Essa è anche sensibilità pittorica tout court, data la gamma vastissima dei vari legni, e la possibilità, con trattamenti particolari, di raggiungere i più sorprendenti effetti luminosi. Allora comprendiamo Vasari, quando, nelle sue Vite, sostiene che i Canozi furono, a Padova, concorrenti di Mantegna, in veste esclusiva di pittori.
Tutto ciò che c’entra, si chiederà il nostro lettore? C’entra eccome! Era una necessaria premessa per presentare l’artefice del portentoso fondale architettonico del nostro affresco: Antonio Pietro degli Abati (Modena 1430?-Rovigo 1504), non solo allievo diretto di Lorenzo Canozi e, presto, celebre intarsiatore come lui. ma, sposandone la sorella, un familiaris a tutti gli effetti.

Percorriamo dunque insieme questo suo capolavoro: un rutilante succedersi di invenzioni di inesauribile varietà ed audacia.
Nella scena di destra: lo scorcio perentorio delle vertiginose colonne marmoree del palazzo in primo piano; la fuga delle case, ciascuna con qualche sua particolarità (un camino, un’altana, una tettoia); poi le scale, le torri, e la piatta, alta parete a mattoni di un indefinibile edificio.
Dove l’audacia? Nello spregiudicato cavalcavia, che, come una metropolitana sopraelevata degli Anni ’20, investe, prepotente e fiero, tutto quel tranquillo tessuto urbano!
Nella scena di sinistra si cambia stile. Viene suggerito un ambiente fuori mano, se non proprio suburbano. È una zona recintata da una muretta, e come presidiata da una severa, grande casa di mattoni rossi con una prigione al pianterreno; [21] poco più in là, si eleva, come dal nulla, un campanile un po’ stranito, con la cella campanaria quasi del tutto murata.
Ed arriviamo infine all’architettura che raccorda le due distinte scene: la Palazzina del re di Samo, il Tiranno pagano, una magica apparizione di pareti elegantemente decorate con un gusto, che non è antiquario, ma libero fantasticare sull’Antico. Ed infine, sopra questa diafana trina, c’è un pergolato, ricco di metafisici, ordinatissimi grappoli, e sorretto da una altrettanto stupefacente struttura: un vivente intreccio di pali e di tronchi.
Uno di essi – ecco l’audacia – si è conficcato, senza riguardo, nella raffinata parete.
Non resta che … riprendere fiato.
È stato lo studioso e storico d’arte Enrico Guidoni (1939-2007), geniale decodificatore del “linguaggio segreto” dei pittori del nostro Umanesimo e Rinascimento,[22] ad individuare[23] l’autore dello straordinario fondale. Una particolarissima firma figurata, ricorrente in più opere, ovvero un palo inclinato con dei panni stesi ad asciugare, lo aveva incuriosito.
Trasferendo la tecnica dell’intarsio ligneo alla lingua, è riuscito a risolvere l’indovinello, risalendo al nome dell’artista. Questo nome contiene l’immagine figurata dei panni stesi lavati:

Pietro Antonio Modenese (di Modena) De Lavati

PETRUS  ANTONIUS  MUTINENSIS  DE  LABATI

Dove il latino TENSI, sta per steso/tensum e dove dobbiamo sostituire, nel passaggio tra il latino e l’italiano, la V alla B, foneticamente equivalenti (Labati=Lavati).
Da lì il recupero completo della figura di Pietro Antonio degli Abati, noto, fino alla scoperta di Guidoni, solo come celebre autore di tarsie, ma anche come architetto: sua la cupola della chiesa del Carmine a Padova.
Questa firma figurata la vediamo benissimo, nella scena di destra dell’affresco, quando, dopo l’ubriacatura delle fughe delle architetture, alziamo gli occhi al cielo ed ecco, lassù, da un’altana, sporgersi, nel blu, un palo con delle camicie bianche, stese ad asciugare!
Ed a Mantova, nella Camera degli Sposi, ormai saputi, ritroveremo la stessa firma; anche là in una posizione di grande evidenza. Lo sfondo della scena è occupato da una straordinaria veduta di Roma Antica. Nel percorso d’accesso all’Urbe è d’obbligo passare un ponte, presidiato da un’enorme Torre. Ebbene, è dalle sue rosse mura che sporgono, deliziosamente senza appoggi, due pali simmetrici con panni stesi ad asciugare.
Pietro Antonio è stato dunque il collaboratore prediletto di Mantegna, presente, e a Padova e a Mantova, e cioè nelle due sue imprese di più largo respiro e di magnifica riuscita.

Ed in effetti Pietro Antonio de Lavati era una garanzia non solo perché era un eccellente prospettico, ma anche perché era un efficientissimo organizzatore.
Sempre Guidoni ci informa come fosse capace di gestire più incarichi contemporaneamente, potendo contare su una bottega di eccezionale competenza. Gli aiuti, poi, erano i suoi stessi famigliari: suo padre e suo figlio.
Tutti e due si chiamavano Paolo.
In latino Paulus, ovverosia palus/palo.
E, a questo punto, tornando all’affresco ed aguzzando gli occhi sulla scena di sinistra, ci accorgeremo che un palo portapanni si sovrappone al campanile, uscendo, aereo, dalla grande casa di mattoni rossi.
Facile dedurre che la scena di sinistra sia da attribuirsi ai due Paolo. Guidoni ventila pure l’ipotesi che i tre personaggi affacciati alla finestra di destra della Palazzina siano proprio il trio degli Abati.
Ma noi, per una volta, non concordiamo per nulla.

Quella posizione, di massimo prestigio, non poteva essere destinata al trio dei pittori prospettici, al quale si era già dato il giusto riconoscimento con l’ospitare le loro firme in figura.Certo queste due finestre ci colpiscono fortissimamente. Lassù un dramma si svolge, anzi un duplice dramma: uno esplicito, l’altro per chi sa.
Il primo lo cogliamo subito; e la freccia, che, decisa, va a bersaglio, ferisce anche il nostro occhio assieme a quello del Re. Nella finestra di destra, occupata da tre giovano, sembrerebbe tutto quieto. Ma non è così. Vicinissima alla sua cornice c’è la lacerazione, causata dal palo, che ha fatto, della parete, il suo bersaglio! Notiamo che la lacerazione è all’altezza dei due giovani in piedi, all’unisono rivolti in quella direzione.
Per qualcuno, una metafora del potere illusionistico della prospettiva, con un esplicito omaggio all’Alberti.[24]
Non lo escludiamo. Per noi si tratta di molto di più. Qui si allude ad uno choc metaforico, legato ad un evento che distrugge una magnifica armonia.
E venendo a sapere[25] che questi due giovani non sono altri che Galeotto e Janus quando insieme, a Ferrara, studiavano latino e greco alla scuola di Guarini, ci rendiamo conto che l’affresco si sta rivelando sempre più autobiografico. Ne riparleremo più avanti.

Ora è tempo di esaminare come Mantegna ha voluto popolare il grande spazio a sua disposizione.
Uno spazio, pieno zeppo di personaggi!
Nella scena di sinistra, la varietà delle pose, vuoi degli spettatori, vuoi degli esecutori del martirio,[26] è sciorinata con sovrana sicurezza.
In piedi, o seduti; rivolti verso il Santo, o a ciò che sta accadendo alla finestra, dove il Re si è affacciato per godersi l’esecuzione della condanna, è tutto all’insegna dello sbalordimento, vuoi per quella freccia, che si arresta davanti al Santo, o per quell’altra, che trova, invece, il suo bersaglio proprio nell’occhio del Re.
Nella scena di destra, invece, la folla, stretta in una lunga lingua di corteo, assiste, immobile, alla rimozione del corpo del Santo decapitato. Si è alla primissima reazione dopo l’accaduto.
Ed anche qui, Mantegna ha inteso cogliere un momento ben particolare.
Mentre, a fondo scena, quasi indistinto, c’è chi si inarca nello sforzo di tendere una corda lungo la gamba di quel colosso, un giovane pieno di grazia, di bianco vestito, rispondendo ad un moto di pietà, si è staccato dal corteo per sostenere, come in un abbraccio, quell’arto ormai inerte.
Il braccio piegato del giovane è in parallelo con il braccio piegato di San Cristoforo all’estremità opposta della scena.
Anche i loro volti guardano nella stessa direzione, in una indefinita lontananza, proprio come i due giovani alla finestra della Palazzina.

Mantegna dunque non solo ha eternato le fattezze reali di Galeotto e di Janus, eleggendoli al ruolo di protagonisti del suo capolavoro, ma ha voluto pure ricordare quel tempo dei giovanili studi ferraresi, dove nacque la loro indissolubile intesa.
Ferrara viene confermata dall’individuazione del terzo giovane: Battista Guarini (1434?-1513),[27] figlio del Maestro, anch’egli suo alunno e dunque sodale dei Nostri. Il particolare profilo del volto, replica quello del padre.
Mantegna lo raffigura distinguendolo al massimo dai due in piedi: è accucciato e guarda in direzione opposta. Ovvero, per chi può capire, non è un intimo amico, come invece l’artista stesso che, sotto quella finestra, sta ritto a completare il trio degli “amici per la vita”. Ubiquitario, e fuori dal tempo, Mantegna compone il trio con i ragazzi alla finestra ed è il saldo vertice – connivente la magica colonna – del triangolo che si instaura, in scena, tra lui e i due unici protagonisti del suo grande affresco. Le fila del passato e del presente sono nelle sue mani, e nel suo cuore lo strazio dell’imminente addio: la lacerazione del palo impietoso!

Lasciamo definitivamente le finestre e torniamo a terra, anzi, al suolo. Intendiamo infatti occuparci proprio della squillante pavimentazione a scacchi bianchi e rossi. Essa presenta, certo, due diverse prospettive, che concorrono a distinguere le due scene, ma questa diversità, a noi sembra quasi scomparire, come risucchiata dal cono d’ombra della colonna ionica. Da lì è emerso Mantegna, “bloccato” dall’Armigero forzuto e – con tutta probabilità – avendo appena salutato quel trio di distinti cittadini, che si profilano davanti alla parete della Palazzina. Evidentemente sono tutti muniti del lasciapassare della libera invenzione.
Questa geniale zona franca è illusionisticamente fatta vivere, perché uno dei tre personaggi sta per l’appunto completando il suo passaggio dall’una all’altra scena. [28]

Ed è sempre la colonna a calamitare i due vortici, creati dalle torsioni dei corpi dei personaggi di schiena: a sinistra, i due dalle pose plateali, in particolare quello che apre le braccia a semicerchio; a destra, l’Armigero con la lancia tenuta a braccio teso, che scatena una sorta di effetto trottola, collegato com’è a chi, a gambe aperte all’inverosimile, sta tendendo la corda per il trasporto del colosso. En passant aggiungiamo che quelle stesse gambe, ci conducono a scoprire la gigantesca mano del Santo.
Tutte queste osservazioni le abbiamo potute fare, servendoci di una copia ottocentesca dell’affresco particolarmente chiara.[29]

Ne esiste un’altra, una copia coeva: una tempera, trasferita su tela.[30] La aggiungiamo per trarne gli ultimi rilievi.
Essa supera in tutto la copia ottocentesca e certo è stata eseguita da un pittore esperto, che aveva attinto al modello originale.
Ce lo dice proprio il San Cristoforo: del tutto inventato nella copia ottocentesca, mantegnesco in quella parigina.
Sappiamo come l’eccezionale prestanza del corpo di Galeotto Marzio abbia ispirato anche i vari San Sebastiano del Nostro. E quello del Kunsthistorisches Museum di Vienna (qui, a lato), contemporaneo alla conclusione dei lavori per la Cappella, risulta, a tutti i livelli, formali ed espressivi, molto consonante. [31]
Galeotto e Janus sono i due esclusivi protagonisti dell’affresco. Di più: sono loro, che lo tengono insieme, anzi, che lo trapassano, collocati come sono – e in pose così particolari – alle estremità della grande scena aperta.
Come tutto si era felicemente risolto! E come il Destino aveva ben cooperato! Era stata la morte di Pizolo, e dunque l’aver dipinto già una decapitazione, a far nascere l’idea del trasporto del corpo e, subito appresso, di come collocare “adeguatamente” Janus.

E per ottemperare al dovere di ricordare che Cristoforo, come Giacomo, aveva subìto la decapitazione, era bastato un flash ad effetto: far rotolare l’enorme testa sanguinante fino all’orlo della cornice, a dilettoso brivido dello spettatore.[32]
La star assoluta dell’affresco era comunque Janus, che tutti avrebbero riconosciuto entrando in chiesa, [33] perché Janus, a Padova, era vissuto per quattro anni (1453-1457), il tempo per laurearsi in Diritto canonico, ma, soprattutto, per vivere, più intensamente possibile, le amicizie del cuore e della mente.[34]
Una star non solo cittadina, non solo nazionale, ma una star internazionale per chi conosceva i suoi scritti e sapeva che era riconosciuto come il più grande poeta neolatino del suo tempo; una star internazionale per chi, infine, si occupava di politica e vedeva in lui, in quanto nipote di Janos Vitéz, il rappresentante della sua Nazione, il vessillifero dell’Ungheria, scudo d’Europa e della Cristianità contro la continua minaccia turca.Un’aura straordinaria avvolgeva tutta la sua armoniosa figura, con in più il prodigio di una naturale grazia e umiltà. [35]

E così Mantegna lo ha ritratto.
Di lì a poco Janus sarebbe tornato in Ungheria.
Di lì a poco anche Mantegna avrebbe lasciato Padova.

La Cappella Ovetari è l’opera dell’addio e
la testimonianza di un’amicizia per sempre.

Daria Eberhart Mueller

Note

[1] Mantegna non ebbe fortuna con le Cappelle da lui affrescate. Se quella del suo debutto, nella Chiesa degli Eremitani di Padova, resse fino ai giorni nostri, la seconda, realizzata a Roma, al vertice della sua fama, ebbe vita molto più breve. Si tratta della Cappella per il nuovo edificio del Belvedere in Vaticano, che Innocenzo VIII (1432-1492) voleva affrescata da un artista di prestigio. Mantegna gli fu “prestato” (1488-1490) dal suo ultimo “padrone”, Francesco II Gonzaga (1484-1519). La Cappella fu distrutta nel 1780 per dar posto alle nuove ristrutturazioni papali.
[2] Stessa sorte ebbe l’affresco dell’Assunzione della Vergine nell’abside. Ne riparleremo nel terzo capitolo.
[3] Fin dall’inizio l’ambizioso progetto della vedova Ovetari, esecutrice testamentaria delle volontà del marito, subì un drastico sbalestramento. Imperatrice Ovetari aveva infatti assunto due squadre di esecutori: una veneziana, guidata da Antonio Vivarini e l’altra padovana con Nicolò Pizolo (1421?-1453), scultore e collaboratore di Donatello (nel cantiere del Santo), e Mantegna. La morte del socio e cognato di Vivarini, Giovanni d’Alemagna (1399-1450), portò al ritiro dei veneziani. Da qui l’ingaggio di nuovi aiuti (Ansuino da Forlì, Bono da Ferrara), a cui si affidarono le Storie di San Cristoforo, e l’espandersi delle diatribe   tra Mantegna e Pizolo per la spartizione degli spazi da affrescare.
[4] Francesco Squarcione (1397-1468), il Maestro, padre-padrone, che lo adottò e lo sfruttò per sei anni e con il quale Mantegna entrò in contenzioso legale, con strascichi fino al 1456.
[5] Galeotto, il futuro applauditissimo professore di Retorica e Poesia a Bologna, come a Padova, era un temutissimo polemista ed un libero pensatore. Sospettato di eresia, subì il carcere e il pubblico ludibrio (Venezia, 1478). Liberato, si traferirà definitivamente in Ungheria, alla Corte di Mattia Corvino.
[6] È il nome, latinizzato, del croato Jànos Csezmicei, che si proclama come nato in Pannonia – provincia romana che comprende l’Ungheria – per evidenziare che si sente figlio di Roma, la patria comune degli umanisti.
[7] La nomina a Vescovo (1445) la ebbe da Janos Hunyady (1407-1456), Reggente d’Ungheria, il mitico vincitore del Turco e padre del futuro Re d’Ungheria, Mattia Corvino (1443-1490). Janos Vitéz era non solo consigliere politico di Hunyadi, ma anche suo precettore e compagno d’armi. Fondatore del primo cenacolo umanistico magiaro, sosta dei più celebri studiosi stranieri, volle e finanziò la prima Università d’Ungheria, quella di Bratislava. La sua biblioteca sarà la base della Biblioteca Corviniana, seconda solo alla Vaticana. Divenne Primate d’Ungheria sotto Mattia Corvino, per la cui ascesa al trono (1458) s’era adoperato.
[8] Ed infatti diverrà Vescovo di Pécs (1459).
[9] Traduzione dal latino di Klaus Mueller.
[10] Daria Mueller, Due personaggi segreti alla corte dei Gonzaga, cleup, 2019. I due personaggi sono, per l’appunto, Galeotto e Janus.
[11] Nel 1456 Mantegna ha già la commissione per la Pala di San Zeno. Inoltre, l’Abate di San Zeno, il patrizio veneziano Gregorio Correr (1409-1464), amico fin dalla giovinezza di Ludovico II Gonzaga, lo segnalerà al Marchese, che subito lo contatterà, offrendogli di diventare il suo Pittore di corte.
[12] Il martirio fa tutt’uno con il miracolo delle frecce, che non eseguono la condanna, voluta dal pagano Re di Samo – una morte per dissanguamento -, ma tornano indietro ed anzi, una, va a conficcarsi proprio nel suo occhio.
[13] Ci saremmo aspettati, abituati a San Sebastiano, condannato allo stesso martirio, di vederlo appoggiato ad una colonna, o ad un tronco d’albero. Invece, non solo è legato alla cornice, ma sta per uscirne fuori. Invenzione ed illusionismo fanno tutt’uno.
[14] E così anche nella Camera degli Sposi accettiamo di vedere insieme nel tempo, ma non nello spazio, Ludovico III – in camera, seduto in vestaglia – e la sua Famiglia, che lo attende in gran gala, fuori, in terrazza.
[15] L’individuazione dell’autoritratto è nostra e la segnalammo già nel saggio sulla Camera degli Sposi (op. cit.).
[16] Immediato, per noi, l’accostamento con l’autoritratto di Benozzo Gozzoli (1420-1497) nella Cappella di Palazzo Medici, da lui affrescata (1459-61). L’artista, immerso nello stipatissimo corteo dei re Magi, si ritrae e, insieme, firma il suo capolavoro. Lungo la bordura del suo cappello rosso, leggiamo a lettre d’oro: Opus Benotii (Opera di Benozzo).
[17] Il che, in questo caso specifico, non significa il più vecchio di età. Ne riparleremo nel terzo capitolo.
[18] Releghiamo nella nota un’osservazione un po’ laboriosa da seguire. I due ritratti saranno sicuramente stati eseguiti in contemporanea. E poiché Pizolo muore nel 1453, abbiamo il termine ante quem (prima di) della sua esecuzione. E nel 1453 Mantegna aveva 22 anni.
[19] Il busto, di incerta attribuzione, probabilmente plasmato da Mantegna, è della fine del Quattrocento.
[20] Ci possiamo consolare con quel che resta degli stalli del Coro del Duomo di Modena, contemporanei con quelli di Padova.
[21] Lo deduciamo dalla lettura della storia di San Cristoforo nella Legenda aurea di Jacopo da Varagine (1230?-1298). Cristoforo è incarcerato, perché si era rifiutato di sacrificare agli dei. Edizioni Mondadori, 1995.
[22] In Giorgione. Opere e significati, Editalia, 1993, vengono decodificate tutte le opere di Giorgione.
[23] E. Guidoni, Due grandi Maestri di prospettive urbane: Pietro Antonio degli Abati e Ombrone, in Ricerche su Giorgione e sulla pittura del Rinascimento. Edizioni Kappa, 1998.
[24] Michael Kubovy, La freccia nell’occhio, Muzzio Editore, 1992.
[25]L’individuazione è dello storico dell’arte magiaro Eugene Csocsàn de Vàrallja. Janus Pannonius és Mantegna, Academia.educativa (pdf).
[26] Vedi nota 14, I capitolo.
[27] L’individuazione è quella di Eugene Csocsàn de Vàrallja (v. nota 24). Alla morte del padre, prese il suo posto. Dai suoi scritti si ricavano le notizie sul prodigioso Janus.
[28] Lo storico d’arte Giuseppe Fiocco (1844-1972), in La Cappella Ovetari, Silvana Ed.d’Arte, 1947  cita fra i maggiorenti della piccola compagnia, Nofri Strozzi, figlio di Palla Strozzi (1372-1462). Il ricchissimo e coltissimo banchiere, bandito da Firenze nel 1434, aveva eletto Padova, come città del suo esilio Il che ci fa capire quanto fosse attrattiva Padova nel suo splendido Quattrocento: una città cosmopolita, soprattutto per merito della sua Università, con diffusi cenacoli umanistici ed eccezionali cantieri artistici. Se agli Eremitani operava Mantegna, al Santo operava Donatello.   Il suo monumento equestre al Gattamelata faceva già mostra di sé a partire dal1453.
[29] Chiara, certo, e però molto meno espressiva (vedi tutto il gioco delle gambe) della copia di Parigi. Molto Ottocento borghese, il piatto, pulitissimo, che accoglie la testa decapitata.
[30] La copia si conserva al Jacquemart-André Museum di Parigi.
[31] Il dipinto fu commissionato dall’umanista e patrizio veneziano J. A. Marcello (1398-1464), podestà di Padova negli anni ’50 del Quattrocento. Nell’epigrafe sulla parete della Palazzina (v. immagine a conclusione del capitoletto) si legge un MARCEL che pensiamo sia un omaggio “nascosto” per l’amico mecenate.
[32] Il restauro della Cappella ha eleminato l’originario accesso con tre gradoni. L’aumentata distanza dell’affresco dal piano del visitatore ha così alterato, se non annullato, il progettato effetto.
[33] E Vasari, nella seconda edizione delle Vite (1568), parlando dell’abitudine di Mantegna di inserire nelle sue opere “i suoi amicissimi”, cita come esempio anche Janus, chiamandolo “un certo Vescovo di Ungheria”.
[34] Vedi la grande elegia dedicata a Mantegna (Laus Andreae Mantegnae, pictoris patavini) per ringraziarlo del doppio ritratto (con Janus e Galeotto insieme), che l’artista aveva eseguito come dono d’addio.
[35]  Usando le parole di Vespasiano da Bisticci (1421-1498), il libraio fiorentino conteso dai Regnanti d’Europa, e che aveva, tra i suoi clienti, anche Vitéz, Janus era un “giovane di bellissima presenza e di maravigliosi costumi.” Vespasiano incontrò personalmente Janus, quando venne a Firenze ad acquistare codici, e lo accompagnò da Cosimo de’ Medici a Careggi (1458). I due si trattennero da soli “per lungo ispazio” e Cosimo ebbe caro di aver parlato con un “così savio giovane e prudente”. Da Vite di uomini illustri del secolo XV.