Ruskin e Giotto

Abstract

Bozza di uno sguardo panottico fra arte, filosofia, architettura. John Ruskin (Londra, 1819-Brandwood 1900) noto scrittore, poeta, pittore e critico d’arte, come molti giovani britannici di famiglia agiata, si forma nella temperie culturale di quello che è noto essere il secolo del Grand Tour che lo porta a visitare l’Europa.

Il viaggio in Italia di John Ruskin

Jhon Ruskin, autoritratto (Wikipedia)

Difatti è del 1840 il suo primo viaggio in Italia, che, lungo le classiche tappe del Grand Tour, lo conduce con i genitori attraverso la Francia e l’Italia fino a Paestum, ed è per lui l’occasione di scoprire di Venezia. Città che – come vedremo fra poco – avrà gran peso nella sua formazione di interprete dell’arte e dell’architettura che tanto ha influenzato l’estetica vittoriana ed edoardiana. Pubblica, infatti, Le pietre di Venezia nel 1852 all’età di 33 anni. Pubblica dal 1853 al 1860, per conto della Arundel Society, dei commenti alle incisioni che la società ha incaricato di fare degli affreschi di Giotto. Ruskin, membro attivo nel consiglio dell’Arundel Society, è vivamente interessato a tutte le iniziative volte a fornire una documentazione sulle opere dell’arte antica italiana. Nel 1853 la Società decide di riprodurre gli affreschi della Cappella dell’Arena a Padova e incarica Mr. Williams di eseguirne i disegni e i fratelli Dalziel di intagliarli su legno. Le incisioni vengono pubblicate a intervalli tra il 1853 e il 1860 e, assieme a ciascun gruppo, escono anche i testi descrittivi di Ruskin, scritti, dunque, senza aver visto la Cappella degli Scrovegni e neanche il ciclo assisiate. In particolare, si deve notare che Ruskin colloca l’opera di Giotto ad Assisi in una fase posteriore a quella di Padova: l’opinione maggiormente accreditata oggi sostiene invece che gli affreschi nella Cappella dell’Arena sono stati eseguiti alcuni anni dopo quelli di Assisi e le opere a Santa Croce molto più tardi. Inoltre, non avendo egli di fronte gli affreschi ma le incisioni pubblicate dall’Arundel Society, commette qualche altro piccolo errore. (1)

Le Pietre di Venezia

Prima di imbarcarci sulla “sensatezza” di questi commenti fiduciari sull’opera di un artista che Ruskin non esamina dal vivo, sorge una domanda: che peso possa avere nel giudizio di queste incisioni (che rimandano agli affreschi di Giotto), la tesi – audace e provocatoria – che Ruskin mette in iscena nel suo Le pietre di Venezia?
Tesi che si può così riassumere: lo splendore di Venezia sarebbe – secondo Ruskin – garantito da quel vento culturale che dal nord Europa è sceso verso il Mediterraneo: il gotico. Questa cultura si porta dietro tutta la spiritualità tardomedievale. Tutto questo mondo risulta compromesso dall’avvento dell’Umanesimo e del Rinascimento, che, togliendo all’uomo il suo rapporto con Dio e ponendo la sua soggettività come misura del tutto, lo fa regredire a una sorta di neopaganesimo codificato dai canoni “scientifici” che l’Umanesimo rivendica. Nella rilettura critica e filologica dei testi greco-latini, i primi umanisti (e forse il protoumanista per eccellenza, Francesco Petrarca), notano che la tradizione amanuense in alcuni casi fortemente compromette ed altera il lascito degli antichi. Il restauro filologico dei manoscritti consente di accedere agli antichi con un rinnovato spirito. Tale riscoperta si fa forza di quella rivoluzione umanistica che pone dopo molti secoli l’uomo al centro del mondo. A favore degli umanisti gioca certo l’asfissia con cui la scolastica ha ridotto a meri giochi sillogistici la grande lezione del filosofo più importante della cultura Mediterranea, Aristotele.

Arte gotica contro arte umanistica?

Questa reductio spinge polemicamente gli umanisti a innalzare come contraltare la figura di Platone e un certo gusto di rilancio, in chiave antiscolastica, anche della tradizione mitologica greco-romana confluita nel neoplatonismo. Nel far questo gli umanisti ricavano, in questo facendo lo stesso errore degli scolastici, dalla cultura classica dei dettami, degli stilemi che garantiscono e supportano l’uomo nuovo del 1400. (2)
Ruskin coglie questa pedanteria degli umanisti che dettano le regole di ciò che deve essere bello. Tremende le pagine di Ruskin sulle donne-madonne anche dei grandi pittori come Tiziano o Botticelli o perfino Raffaello; non donne ma “donnacce”: segno della decadenza della cultura cristiana che si è corrotta e svenduta al potere del denaro, del lusso e della lussuria. E sarà proprio questa decadenza che farà irrompere sulla scena Lutero e la sua Riforma.
Ruskin in questi passaggi mantiene uno straordinario equilibrio: non si trattiene dall’accusare anche il luteranesimo di essersi abbandonato a forme di paganesimo. La persecuzione verso gli eretici e le culture minoritarie si scatenerà sulle due sponde della frattura del mondo cristiano.
La forte impronta puritana che Ruskin ha soprattutto dalla madre, fanaticamente osservante, certamente non lo ha abbandonato. Ma questo non toglie che egli abbia colto con molta finezza lo stile dell’arte gotica come di uno stile che sgorga dalla creatività dell’artista e non dall’ossequio alle regole sancite dalla cultura dominante, quella curtense. Poliziano detta le norme della bellezza femminile. E spesso in questa contaminazione tra la riscoperta dei classici e la nuova religiosità laica degli umanisti, dice Ruskin, si è arrivati a mettere sulla stessa scena Venere e la Vergine Maria come se fossero punti di riferimento cultuale analoghi.
Viene dunque da chiedersi: quanto c’è di quel gotico che affascinò Ruskin in Venezia, negli affreschi di Giotto a Padova? Anche in quella lettura mediata dalle incisioni lignee? Se ben si guardano i commenti alle incisioni tratte dagli affreschi della Cappella degli Scrovegni, si troveranno tracce del gotico nelle finestrelle cuspidate. (3)
Tanti sono gli spunti che possono condurre a vedere in queste immagini qualcosa che non c’era nella pittura bizantina. Nella decorazione, nella fissazione delle figure umane ed angelicali dell’arte bizantina l’uomo scompare: viene proposto uno stereotipo. Anche la santità è astratta, aureolata d’oro ma di un oro mortifero.
Giotto porta nella sua pittura la rivoluzione della figura umana nella sua reale quotidianità: quei contadini seduti che offrono le spalle al pittore sono la frattura di tutti i canoni stilistici del bello bizantino. Perché allora non riconoscere a Ruskin che forse proprio lui è l’annunciatore di questo umanesimo? Non l’uomo ipnotizzato dalla fissità iconografica bizantina, ma il contadino, il pescatore sono i contermini del Cristo.
Non può essere proprio questo di Giotto l’inno del nuovo umanesimo? Ruskin sostiene che appena la potenza militare ed economica di Venezia si impone nel mondo, essa si produce nella ripetizione di nuovi stereotipi. Gli umanisti non capiscono di venir risucchiati da chi li ingaggia. Tutti hanno bisogno della committenza.

Giotto e Dante

La Lapide sull’ultima abitazione
veneziana di Ruskin

Anche Giotto da questo punto di vista è al servizio del figlio di un noto usuraio che dedica la Cappella affrescata da Giotto come riparazione dei peccati del padre. Giotto rappresentato le scene apocalittiche con il demonio che si mangia i peccatori torturandoli come nessuno ha avuto il coraggio di fare. E questo suo coraggio spingerà molti altri pittori a provare la stessa audacia. Lo stesso “smarrimento” lo si può trovare nell’opera del coevo e quasi coetaneo Dante Alighieri. Il suo viaggio immaginario di sette giorni fra Inferno, Purgatorio e Paradiso pare svolgersi proprio nel 1300, anno del primo Giubileo. L’anno dell’espiazione e del perdono per tutta l’umanità, bandito da Papa Bonifacio VIII, si accorda alla personale vicenda di redenzione del poeta. Il traviamento di Dante, il suo allontanamento dall’ortodossia nella fede e dall’ideale dell’amor cortese in poesia, potrebbe collocarsi sul finire del XIII secolo. Che la redenzione sia avvenuta proprio nel 1300 non è dato sapere, tuttavia questa data coincide con il primo anno del nuovo secolo. Ogni passaggio di secolo, infatti, porta con sé la paura di una fine imminente, un’ansia di rinnovamento e una conseguente sensazione di rinascita.
Giotto e Dante vivono a Firenze, sono quasi coetanei, guelfi, e si sposano a due anni di distanza, sono attivi nella vita sociale fiorentina. I poeti del Dolce Stil Novo stanno emergendo, come i giovani artisti della bottega di Cimabue. Tra questi uomini, Giotto e Dante incarnano perfettamente lo spirito toscano: l’artista imprimendo nella sua mente quell’espressività appasionata che si manifesta davanti ai suoi occhi tutte le volte che assiste alle processioni, alle risse, alle feste; il poeta entrando sempre più attivamente nella vita militare e politica di Firenze.
Dante e Giotto sono due pilastri di una nuova cultura, consapevoli delle proprie radici storiche. La mano del pittore e la penna del poeta si spingono oltre, al di là del loro tempo, al di là del Medioevo, rappresentando la realtà in maniera sempre più verosimile, tanto nella rappresentazione dei temi sacri, quanto di quelli profani. Le loro opere diventano sintesi di grandi esperienze culturali. Anche se tra i due le divergenze prevalgono sulle analogie, visto che il sistema di Dante ha una sua struttura dottrinale e teologica modellata sul pensiero di San Tommaso. Mentre sappiamo dalla testimonianza critico-storica-letteraria dello studioso Giuliano Pisani, l’importanza nella formazione di Giotto, della scuola agostiniana; precisata in questa citazione: “La prima dedicazione dello spazio sacro, che ampliava una cappellina preesistente, avvenne il 25 marzo 1303, festa dell’Annunciazione; la seconda due anni dopo, il 25 marzo 1305(…), in collegamento con il primo Giubileo della storia, indetto da Bonifacio VIII nel 1300, illustra la storia della salvezza, ma la complessità teologica, i numerosi elementi simbolici, le “novità” concettuali e qualche arditezza, svelano la presenza di un teologo coltissimo, che opera in stretta sintonia con Giotto”(…) “nel monastero degli Eremitani era attiva un’importante scuola agostiniana, con la presenza di maestri illustri, il più famoso dei quali era frate Alberto da Padova. Una serie di indizi ci ha fato pensare a lui come al teologo ispiratore di Giotto”.
La vastità universale dell’idea, l’ordine perfetto della narrazione, la sequenza drammatica degli episodi, la forza potente delle categorizzazioni individuali hanno fatto accostare, da parte di storici, critici, filologi, il poema pittorico di Giotto alla Divina Commedia di Dante. Del resto, i due capolavori, contemporanei, chiudono un’era della civiltà italiana e ne iniziano una nuova. I due massimi esponenti della cultura toscana, dunque anche italiana e europea del XIV secolo, il loro personale legame tra poesia dell’uno e pittura dell’altro sono fondamentali per comprendere il Trecento, una civiltà dal fascino duraturo. La Cappella degli Scrovegni finirà per essere la Divina Commedia della pittura, in quanto grandiosa sintesi del pensiero filosofico e teologico medievale, con un linguaggio sorprendentemente attuale.

La nuova edizione

Riedizione moderna

Con questo studio Ruskin apre la strada a una conoscenza più profonda di Giotto. Gli aspetti sui quali egli insiste – l’equilibrio e il buon senso della mente di Giotto, la grande umanità del suo carattere, la sua capacità di entrare nel cuore di un soggetto e la sua particolare abilità nella rappresentazione drammatica – rimangono i punti salienti di tutta la critica autorevole sul pittore, mentre sulle caratteristiche artistiche degli affreschi, non si ha nulla di significativo oltre al commento di Ruskin, pur nel paradosso di un giudizio fatto in absentia. Poiché da alcuni anni il libro era irreperibile, Mr. Weddeburn, poco prima della morte di Ruskin, si impegnò a prepararne una nuova edizione, in un formato ridotto, simile a quello delle altre sue opere. Tale formato non permetteva di pubblicare le incisioni che furono dunque sostituite con riproduzione delle fotografie degli affreschi. Nel volume cui ci riferiamo le incisioni originali, ora non più reperibili, sono state riprodotte con la fotozincografia. Quando scrisse le sue note, Ruskin aveva sottomano le incisioni e ad esse fece riferimento. Affermò, tra l’altro, che il carattere della pittura di Giotto “viene reso meglio dalle nette riproduzioni su legno” e questo aspetto, per quanto “imbarazzante” e “presuntuoso” denota quantomeno che un confronto vi sia stato (fra le riproduzioni su legno e le incisioni). Resta questa particolarissima testimonianza di un “tassello” di storia padovana alla luce di un inglese che si fece delle teorie opinabili ma significative, che sottolineano l’importanza attribuita da Ruskin all’opera di Giotto.

Bibliografia

(1) Dopo il 1853 gli affreschi furono restaurati e queste xilografie, per quanto risentano dell’intervento del disegnatore e dell’incisore, costituiscono un documento storico dello stato delle opere a quell’epoca […].
(2) Dalla premessa al Volume XXIV ( che corrisponde al XXXIX volume del THE WORKS OF JOHN RUSKIN, Library Edition, London 1906 ( Edited by E.T.Cook and A. Weddeburn)
(3) “John Ruskin, Giotto e le sue opere a Padova”, biblioteca Ruskiniana, titolo originale dell’opera  “Giotto and his Works in Padua” traduzione di Sandra Boscolo Rizzo

Marta Celio

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