Sommario
Abstract
La cittadina di Camposampiero, che svolge un ruolo centrale e di riferimento nell’area nord-est del territorio padovano, è legata alla figura di Sant’ Antonio, il quale vi soggiornò nel 1231, invitato dal conte Tiso, per un periodo di meditazione e di riposo. La tradizione vuole che, a qualche centinaio di metri dal luogo in cui oggi sorge il convento dei frati francescani, crescesse l’albero dal quale il Santo predicava ai fedeli, e si estendesse il campo di frumento che fu oggetto di uno straordinario miracolo del Taumaturgo. Ma in tale oasi di spiritualità e di pace, si può anche ammirare il santuario di San Giovanni Battista, che è affiancato dalla cosiddetta “Cella della Visione”, la cameretta in cui Antonio si ritirava a pregare e a riposare e nella quale ebbe la visione del Bambino Gesù.
Il breve soggiorno di frate Antonio
Quando una piccola comunità di frati francescani, tra il 1227 e il 1229, arrivò a Camposampiero, nell’alta Padovana, invitata dal feudatario di quel luogo, il conte Tiso VI Novello, allo scopo di gestire e custodire l’antica chiesa di San Giovanni Battista, che sorgeva appena fuori dalla cinta del castello, il borgo circostante il sacro edificio era abitato da gente molto povera ed incolta, dedita, per lo più, a forme larvate di lavoro subalterno.
Quantunque non molto vistosa e capiente, detta chiesa, che in passato fungeva da cappella privata della potente famiglia dei Camposampiero, doveva avere la sua importanza sia per i feudatari che per la locale popolazione, dimostratasi incline, fin dall’inizio, a familiarizzare con i religiosi per la loro umiltà e disponibilità verso il prossimo, nonché a motivo della loro profonda spiritualità: elementi che stimolavano ad intraprendere una vita cristiana sotto l’egida e nello spirito del santo fondatore Francesco, morto nel 1226 e canonizzato a soli undici mesi dalla sua scomparsa.
Nella primavera inoltrata del 1231, il piccolo convento formatosi intorno alla chiesa, pressoché rifinito nella sua costruzione, era attivo e fiorente, quando vi giunse, per un periodo di meditazione e di riposo, frate Antonio, a seguito del logorante impegno determinato dalla predicazione quaresimale tenuta a Padova qualche mese prima. A dire il vero, il noto predicatore, oltre che prostrato dalle fatiche apostoliche, si sentiva deluso ed amareggiato per il fallimento della sua ultima missione. Si era recato a Verona, infatti, presso Ezzelino da Romano, per implorare la liberazione dal duro carcere del conte Rizzardo di San Bonifacio e dei suoi cortigiani ed aveva affrontato il tiranno con parole durissime, ma questi, solitamente implacabile e crudele, preso da improvviso timore, invece d’impartire l’ordine alle sue guardie di trucidare il francescano, comandò che fosse allontanato senza violenza.
Circa lo stato di salute del buon frate, non è da escludere che egli, sentendosi venir meno le forze e presagendo imminente la propria fine, avesse ceduto alle insistenze dell’amico Tiso di ritirarsi nel romitorio di Camposampiero. Sta di fatto che venne accolto dai confratelli con grande sollecitudine ed amorevolezza e gli fu assegnata una cella del convento, che guardava direttamente sulla chiesa di San Giovanni. Si dice che trascorresse nell’angusta cameretta lunghi periodi, pregando ed offrendo al Signore le proprie sofferenze.
La Cella della Visione
La suddetta cella sopravvisse nei secoli all’abbattimento dell’antico santuario, tant’è che, un centinaio d’anni fa, nell’eseguire alcuni interventi intesi a restituire alla chiesa la primitiva semplicità, liberandola dagli stucchi che la deturpavano, vennero alla luce una finestrella, un piccolo pertugio e, infine, la traccia di una porticina stretta e irregolare. Stando alla testimonianza rilasciata dallo stesso conte Tiso VI, che aveva spiato il frate mentre pregava, in questa cameretta Antonio, durante una visione celestiale, avrebbe accolto tra le braccia Gesù Bambino, che poi si sarebbe posato sul suo libro aperto.
Oggi, sul luogo, si conservano alcuni importanti cimeli: il sasso su cui il Taumaturgo posava la testa nelle ore destinate al riposo ed una tavola di legno, che gli sarebbe servita da giaciglio durante la permanenza nel convento, sulla quale Andrea da Murano, nel 1486, dipinse una suggestiva immagine, seguendo una traccia lasciata dal corpo sudato del Santo. Per qualche secolo la menzionata tavola servì come pala all’altarino della cella, fino a quando, ridotta a mal partito dall’indiscreta devozione dei fedeli, che la tagliuzzavano per farne reliquie, fu protetta da uno spesso cristallo.
Va detto che la più recente ristrutturazione della cella, avvenuta nel 1995 su progetto dell’architetto Francesco Pio Dotti, è passata attraverso tre fasi: una conoscitiva e storica, in cui gli esperti si sono prodigati a reperire documenti d’archivio; un restauro di tipo conservativo, nel quale si sono individuati dei mattoni stratificati e compositi; una fase operativa, consistita nello scrostamento dei muri e nel riportare alla luce vari livelli di pavimentazione: scoperta, quest’ultima, che ha confermato la presenza di più strutture murarie, di cui una, almeno, testimonia l’esistenza di un convento precedente la venuta di Sant’Antonio.
Ma torniamo all’assunto iniziale. Verso la metà di giugno del 1231, il santo frate, presagendo prossima la propria dipartita, desiderò essere trasferito a Padova, nella sede provinciale della comunità di San Francesco. Avendo espresso tale desiderio al confratello fra Ruggero, venne subito esaudito. Era un pomeriggio assolato e un carro, trainato da buoi, procedeva lentamente per la via polverosa. Il contadino, proprietario del veicolo, e due frati, camminavano ai lati con volto preoccupato, mentre Antonio, sdraiato sulla paglia ed assorto in preghiera, sembrava indifferente al dolore della malattia e alle scosse prodotte dal terreno accidentato. Dal convento di Camposampiero, fino alle porte di Padova, ci sono meno di venti chilometri. Non essendo certo la bella strada dei nostri giorni, il triste viaggio durò diverse ore: al tramonto il corteo giunse al sobborgo settentrionale di Padova, dove sorgeva un antico monastero di clarisse, chiamato “Arcta cella”.
A questo punto, non ci soffermeremo a parlare dell’agonia e della morte di Sant’Antonio, argomenti peraltro da noi più volte trattati in precedenti articoli, ma vorremmo solo ricordare al lettore che la breve permanenza del Santo a Camposampiero (meno di un mese) fu caratterizzata da alcuni episodi eccezionali, come la cosiddetta “predica del noce” (o meglio, “dal noce”) e il miracolo del frumento calpestato.
La predica dal noce
Il famoso episodio della predica dal noce ci interessa perché, da quell’esperienza vissuta dal Taumaturgo, ebbe inizio la storia della “nogara”. L’origine è da porre in relazione a quanto ci racconta l’anonimo francescano che scrisse, nel 1232, la prima biografia di Sant’Antonio, chiamata “Assidua” (dall’iniziale parola latina con cui comincia), come pure a quanto narra il Rolandino, un notaio di Padova vissuto al tempo del frate. Ecco il testo tratto dal capitolo 15 della menzionata “Vita Assidua”:
“Tutto felice per l’arrivo di frate Antonio, un nobile chiamato Tiso offrì devotamente al Servo di Dio l’ossequio premuroso della sua cortesia: anche l’eremo dei frati era soggetto al suo dominio. Questo signore aveva, non moto lontano dalla dimora dei frati, un fitto bosco dove, tra le altre piante silvestri, era cresciuto un noce poderoso, formando una specie di corona di rami. L’uomo di Dio, avendone un giorno ammirata la bellezza, tosto, su indicazione dello Spirito, decise di farsi una cella sopra il noce, perché il luogo offriva impensata solitudine e quiete favorevole alla contemplazione.
Il nobiluomo, appena venne a conoscere quel desiderio per mezzo dei frati, dopo aver riunito in quadrato, e trasversalmente ai rami, delle pertiche, preparò con le sue mani una cella di stuoie. Celle simili fece anche per i due compagni, apprestando però con maggior cura la superiore, destinata al Santo, e formando le altre secondo il volere dei frati, sebbene con minor cura. In questa cella, il Servo di Dio, Antonio, conduceva una vita celestiale, assiduo come ape laboriosa nell’applicarsi alla santa contemplazione. Fu questa la sua ultima dimora in mezzo ai mortali; salendo lassù egli mostrava di avvicinarsi a Dio”.
Ma della predicazione del Taumaturgo dall’alto del noce fa cenno specifico lo storico Bernardino Scardeone in “De antiquitate urbis Patavii” (Basilea, 1560 – pag. 290), che così scrive: “Tosto che si diffuse nei dintorni la voce della venuta di Antonio fra noi, fu un accorrere da ogni parte di gente bramosa di veder con i propri occhi e di udire con le proprie orecchie colui che una fama oramai universale proclamava “Santo”, operatore di prodigi e predicatore insigne”.
Il miracolo del frumento calpestato
Quanto al miracolo del frumento calpestato, si tratta di un evento che ha sapore di leggenda o, meglio, di tradizione popolare. Infatti, non viene riferito in nessuna delle tante biografie scritte sul francescano dal giglio in mano: solo il predetto canonico Scardeone, nella seconda metà del XVI secolo, ne parlerà per primo. Ecco il riassunto di quell’episodio.
Essendo notoria la fama di santità del frate, gli abitanti della zona accorsero numerosi a sentire la sua parola, senza far troppo caso ai danni che avrebbero potuto arrecare ai campi coltivati. Di fronte al noce, infatti, s’estendeva un campo di floride spighe, che i convenuti calpestarono senza riguardo. Avvisato, l’agricoltore accorse trafelato; vide il disastro e istintivamente se la prese con il responsabile morale, appunto Antonio, il quale, ben consapevole del guaio, pregò il povero contadino di avere fiducia in Dio: andasse pure a casa, per ritornare sul posto la mattina seguente, ché avrebbe avuto una piacevole sorpresa. Sapendo chi era colui che faceva simile promessa, l’uomo si tranquillizzò. E il giorno dopo, scoprì il suo frumento intatto, florido e maturo, pronto per essere falciato.
L’interno dell’Oratorio del Noce di Camposampiero – una chiesetta da molti anni innalzata a Santuario – offre un ciclo di splendidi affreschi attribuiti al pittore Girolamo Tessari, detto “Dal Santo” (secolo XV). Uno di questi, più attraente per novità di soggetto e capacità di sintesi scenica, rappresenta appunto il “miracolo del grano calpestato”, con il contadino infuriato e il frate che cerca di tranquillizzarlo. Ma l’abside dell’oratorio è dominata dalla sontuosa pala (olio su tela) di Bonifacio da Verona, raffigurante Sant’Antonio in cima all’albero, seduto all’inforcatura fra tronco e rami e intento a tenere un sermone ai numerosi ascoltatori convenuti. L’opera, che andrebbe collocata intorno al 1535, è la più insigne della cittadina veneta.
Il dipinto di Pietro Annigoni
Un’altra suggestiva rappresentazione di Sant’Antonio che predica dal noce ci viene offerta da un vasto affresco (cm 580 x 890) che si trova sulla parete interna della facciata della basilica di Padova, proprio sopra la porta centrale. È un’opera d’arte di Pietro Annigoni, eseguita nel 1985 su commissione dei frati francescani. In un paesaggio estremamente variegato e riverberato dai raggi del crepuscolo, la scena è dominata dalla figura del Santo, dal volto incavato, nell’atto di mostrare il Vangelo all’uditorio, formato da contadini, massaie, notabili, popolani, storpi e ragazzini. Francescanamente, poi, l’Annigoni ha voluto ritrarre uccelli appollaiati sui rami, o in volo, e persino alcuni scoiattoli, che attendono pazientemente di tornare alla tana nel tronco del noce. La chioma dell’albero è divisa in due grosse ciocche, che, con il loro tripudio di rami e foglie, variamente accarezzati da riflessi luminosi, sembrano formare, intorno alla figura del frate, una preziosa cornice. Sullo sfondo ceruleo, e quasi a livello della linea d’orizzonte, il profilo delle montagne.
Enzo Ramazzina