Giovanni Battista Belzoni e la riscoperta dell’Antico Egitto

Abstract

Per comprendere adeguatamente la figura, i viaggi, le imprese, le scoperte, la vita del padovano Giovanni Battista Belzoni è necessario riportarsi ai suoi tempi e conoscere alcuni importanti antefatti nella sua opera di riscoperta dell’antico Egitto. È bene comunque sapere che non fu un archeologo nel senso moderno del termine ma un pioniere dell’egittologia, che divenne tale per vicende fortuite, ma che una volta percepita la rilevanza del suo lavoro, questo si trasformò in uno scopo di vita interrotto solo da rivalità e gelosie che il padovano aveva forse sottovalutato.

Giovanni Battista Belzoni

Belzoni da Padova all’Egitto

Se il nome di Padova corre nel mondo, è sì merito di Giotto, Galileo, Sant’Antonio, Tito Livio, ma anche di Giovanni Battista Belzoni, che per Howard Carter, lo scopritore della tomba intatta di Tutankamon nel 1922 nella Valle dei Re, «è stato il personaggio più straordinario nella storia dell’egittologia». È stato presto paragonato a grandi viaggiatori e scopritori come Marco Polo, Cristoforo Colombo, Amerigo Vespucci per l’eccezionalità delle sue imprese, ammirato e tacciato come avventuriero per i metodi con cui operava, che ovviamente non erano quelli dell’archeologia moderna.

I suoi ammiratori sono sempre stati più numerosi, inglesi e personalità del mondo anglosassone in primis. Nel Mississippi, nel delta del grande omonimo fiume esiste Belzoni City, fondata da un ispanico americano, Alvarez Fisk, che stravedeva per questo padovano passato dai palcoscenici d’Inghilterra alla gloria dei pionieri dell’egittologia. È ora che nei suoi confronti, un irregolare della scienza nella città che vanta una delle più antiche università d’Europa, si recuperi, oltre alla sua “patavinitas”, la sua giusta collocazione culturale.

Alla famiglia d’origine, ai parenti, alla città natale Belzoni è stato sempre molto legato (nonostante si fosse convinto, per vanità o altro, d’essere d’origine romana), e a Padova ha voluto donare due bellissime statue in diorite della dea egizia leontocefala Sekmet. Aveva indicato come loro idonea collocazione il Salone del Palazzo della Ragione, come è stato fino al 1982, quando sono state trasportate al nuovo Museo agli Eremitani. Nel Novecento il Museo Archeologico avrebbe ricevuto in donazione, dagli eredi Belzoni, anche dei papiri aramaici, i primi giunti in Europa e subito tradotti dall’egittologa Edda Bresciani che li ha stimati di grande importanza.

Di ritorno dall’Egitto Belzoni tra gli altri strinse amicizia con il grande architetto Giuseppe Jappelli, che nel nuovo Caffè Pedrocchi avrebbe ricordato l’amico con la splendida sala egizia e non solo. Dopo un medaglione marmoreo di Rinaldo Rinaldi, collocato sopra la porta est del salone e le statue egizie nel 1827 con orazione commemorativa dell’abate Giuseppe Barbieri, la città avrebbe sperato, raccogliendo con il tempo denaro allo scopo, nell’erezione di un pubblico monumento per onorare adeguatamente il suo personaggio, ma per motivi diversi quel monumento non è mai stato realizzato. Si spera che arrivino tempi più propizi per vederlo in qualche spiazzo cittadino, e sarà sempre troppo tardi.

La vita di Belzoni si deve dunque dividere nettamente tra prima e dopo l’arrivo in Egitto. Il personaggio celebre appartiene al secondo periodo, e per lui fu una vita nuova, da uomo famoso e celebrato, ma anche invidiato, contestato talora per il suo temperamento orgoglioso e ombroso. Purtroppo morì nel fiore degli anni e nel pieno delle forze durante una pericolosa missione da esploratore in Africa occidentale per conto dell’Associazione Africana di Londra.

Egitto, La Valle dei Re (foto Peter J. Bubenik (1995)

La spedizione napoleonica in Egitto

Per quanto riguarda la riscoperta dell’antico Egitto, se si vuole trovare l’avvenimento decisivo e determinante per il quale questa ebbe inizio in modo sistematico e organico, fu la spedizione napoleonica del 1798. Lo scopo della missione militare era d’interrompere e mettere in crisi i traffici commerciali e coloniali dell’Inghilterra con l’Oriente e l’India. Per Napoleone l’impresa si rivelò un disastro, ma poche guerre riuscirono tanto feconde e benefiche per la cultura, per l’umanità e per lo stesso Egitto moderno.

Il giovane condottiero corso aveva infatti portato con sé una commissione scientifico-archeologica, il fior fiore del sapere della società francese per studiare a fondo quel paese antico e misterioso. Non che in precedenza fossero mancati tentativi di studio e di conoscenza da parte di europei. Anzi si possono citare anche alcuni viaggiatori e ricercatori veneti in Egitto. Napoleone era consapevole delle conseguenze di quella spedizione e volle coinvolgere le truppe nei suoi intenti proclamando: «Soldati, quaranta secoli di storia vi guardano dall’alto di queste piramidi». Se l’esercito tornò in patria sconfitto dagli inglesi, per gli studiosi della commissione scientifica il successo fu sorprendente. I risultati delle loro ricerche confluirono in una pubblicazione monumentale dal titolo Descrizione dell’Egitto, conclusa nel 1822 con nove volumi di testo e undici di illustrazioni.

Purtroppo i francesi, a causa della disfatta, dovettero lasciare agli inglesi il reperto più importante, quella stele di Rosetta che sarebbe servita vent’anni dopo a Champollion nella decifrazione dei geroglifici per il suo testo riportato in tre scritture, greco, demotico e geroglifico.

Chi si distinse nella commissione napoleonica fu un bizzarro personaggio, il barone Dominique Vivant Denon, che percorse quasi tutto l’Egitto disegnando una mole incredibile di monumenti anche tra il sibilo dei proiettili. Il suo diario Viaggio nel Basso e Alto Egitto, scritto durante la campagna del Bonaparte, si può considerare l’inizio della riscoperta sistematica dell’Egitto dei faraoni per merito di questo esteta-soldato.

Da allora l’Egitto divenne di moda e l’interesse nei suoi confronti non è mai venuto meno. Allo stile neoclassico dell’epoca napoleonica si associò quello egizio nell’architettura, nella moda, nelle suppellettili, e non solo in Francia e in Inghilterra. L’Egyptian Hall di Piccadilly, la Galleria-Museo dove Belzoni avrebbe allestito con gran successo la prima mostra egizia in Europa, era già tale da dieci anni. Viaggiatori francesi, inglesi, tedeschi, svizzeri, italiani scelsero come meta preferita l’Egitto. I grandi musei di stato, il Louvre di Parigi e il British Museum di Londra in primis, si contendevano i reperti che il pascià d’Egitto, l’albanese Mehemet Alì, lasciava raccogliere con il rilascio di “firmani” (permessi), soprattutto ai consoli generali, purché questi cooperassero nella modernizzazione agricola, industriale e commerciale del paese.

Egyptian Hall nel 1828 (Piccadilly, Londra)

S’introduce qui la questione dell’asportazione massiccia di tesori archeologici, che taluni hanno voluto accostare alle secolari ruberie nelle tombe egizie. Le cose sono certamente ben distinte: a parte la diversa sensibilità tra ieri e oggi, è evidente e documentato che il governatore dell’impero ottomano, quasi indipendente nell’esercizio del suo potere, non aveva alcuna considerazione per quelle pietre e antichità che gli europei si contendevano talvolta con frenesia. Oggi bisogna dire che di fronte a numerosi danneggiamenti e distruzioni operati nel passato dagli indigeni e da viaggiatori senza scrupoli, tante testimonianze dell’antico Egitto sono state studiate e custodite con cura in molti musei. Le imprese e le scoperte di Belzoni si inseriscono in questo contesto storico, quello del pionierismo dell’egittologia, quando il tempo degli storici e dell’archeologia scientifica doveva ancora o stava per iniziare.

Qualche dato biografico su Belzoni

Giovanni Battista Belzoni

Era nato a Padova nel 1778, figlio di un barbiere della zona del Portello, ma parrocchia di Santa Sofia, dove fu battezzato. Il suo vero nome era Giovanni Battista Bolzon, che lui in seguito avrebbe italianizzato nel più eufonico Belzoni. Nella premessa ai suoi Viaggi in Egitto e Nubia, si dice discendente “da famiglia di origine romana stabilitasi da lungo tempo a Padova”. In effetti a Roma esiste un cognome del genere che il padovano ebbe probabilmente occasione di conoscere quando, desideroso di evadere dall’ambiente ristretto della sua città, si trasferì nella città eterna. E qui cominciano i misteri della sua vita: per fare che cosa? Lui scrive per darsi alla vita religiosa, ma conoscendo il suo grado d’istruzione (da distinguere dalla sua vivace intelligenza), più che converso in qualche convento non fu.

All’arrivo dei napoleonici nel 1778, il prestante giovanotto, robusto e alto due metri, fuggì dall’Italia probabilmente per evitare l’arruolamento tra le truppe francesi. Il mancato religioso racconta ingenuamente di essere andato a Parigi a vendere oggetti sacri, ma se c’era un luogo non adatto per quel commercio era proprio la capitale dei rivoluzionari. Da quel periodo cominciò a prendere le distanze da tutto quello che poteva essere napoleonico: divenne un subordinato nelle forze armate prussiane e poi mercante con il fratello Francesco in Olanda.

Dopo un breve ritorno a Padova agli inizi del nuovo secolo (da dove probabilmente dovette andarsene), nel 1803 lo troviamo uomo di forza, giocoliere e poi attore ed esperto di giochi acquatici in Inghilterra. Il suo numero più richiesto era quello della “piramide umana”: con un congegno triangolare sulle spalle il gigante padovano sollevava e portava per il palcoscenico una decina (e forse più) di spettatori. Subito dopo esser arrivato in Inghilterra conobbe e sposò una giovane inglese di nome Sarah Banne, di Bristol, come lui coraggiosa, intraprendente e amante dei viaggi. Sarà una coppia affiatata, pur senza figli, sino alla fine. Anzi la lunga vedovanza di Sarah sarà vissuta nel nome e nella memoria di lui.

L’insuccesso della macchina idraulica costruita da Belzoni

Dopo una lunga tournée teatrale che portò la coppia (e un domestico irlandese di nome James Curtin) al seguito delle truppe inglesi in Portogallo, nella penisola iberica e in Sicilia nella guerra contro i francesi, a Malta Belzoni, conosciuto come esperto d’idraulica, ebbe l’invito da parte di un emissario del viceré d’Egitto a recarsi in quel paese per proporre una macchina idraulica di sua invenzione. Aveva in animo di portarsi a Costantinopoli, ma la proposta egiziana gli sembrava da non scartare e decise per quella prova. Il problema dell’irrigazione delle campagne era molto sentito nella terra del Nilo e ogni novità era in teoria benvista. Era l’anno 1815, e nello stesso in cui si concludeva l’avventura politica e militare di Napoleone, Belzoni sbarcava ad Alessandria con la moglie e il domestico. Il paese era in preda alla peste, per cui gli fu necessario attendere tempi più idonei per mettersi all’opera e conoscere le persone adatte ed essere ricevuto dal pascià. In attesa dell’udienza l’ex attore ebbe modo di visitare le piramidi di Gizah, e anche se non pensava ancora alle antichità: «la vista che godemmo allora – scrive lui stesso – era di una bellezza tale che la penna tenterebbe invano di poter descrivere».

Colpito violentemente da una scudisciata di un soldato turco, il padovano fu costretto a procrastinare la presentazione della sua macchina idraulica a Mehemet Alì. Quando giunse il giorno dell’esperimento, fosse sfortuna, fosse più facilmente il boicottaggio degli inservienti della corte di Subra, presso Il Cairo, la ruota idraulica non funzionò a dovere, anzi il povero James fu vittima di un infortunio. Con il solo aiuto di un bue, infatti, la pompa idraulica avrebbe dovuto compiere un lavoro per il quale normalmente ce ne volevano quattro. Così parve non accadesse e il pascià, consigliato anche dai suoi dignitari, decise che non se ne sarebbe fatto più nulla.

Per Belzoni la situazione si presentò presto assai grave in quanto si trovava lontano dall’Europa, in un paese a lui sconosciuto e con familiari a carico. Ora in quelle lande il gigante padovano doveva arrabattarsi per sopravvivere, e il primo anno lo trascorse coltivando conoscenze come quella, tra le altre, dell’ex console francese ed ex ufficiale napoleonico Bernardino Drovetti, piemontese e assiduo ricercatore di antichità, e soprattutto quella dell’orientalista svizzero Johannes Ludwig Burchardt, che si era in pratica islamizzato, cambiando anche il nome in Sheik Ibrahim ibn Abdallah, per meglio conoscere e descrivere usi e costumi degli arabi e i luoghi sacri dell’islam proibiti agli infedeli e muoversi con sicurezza.

Modellino della macchina idraulica realizzata da Belzoni in Egitto (foto Graziano Tavan, archeologiavocidalpassato.com)

Il trasporto del colosso di Ramesse II

L’amicizia con questo studioso, deceduto prematuramente nel 1817, sarà determinante per le scelte del padovano e i metodi del suo lavoro nella terra dei faraoni. Fu proprio il Burckardt a presentare quell’italiano aitante e ingegnoso al nuovo console generale inglese Henry Salt, già viaggiatore in India, Ceylon, Abissinia e amante dell’antiquariato, perché sembrava idoneo per un’impresa non riuscita finora a nessuno: l’asporto di un grande busto faraonico in granito dalle sabbie del Ramesseo per il British Museum.

Allora il colosso era chiamato il “giovane Memnone” dal nome di un eroe troiano (Strabone), “Ozimandyas” da Diodoro Siculo e notificato da precedenti viaggiatori come il danese Norden e l’inglese Hamilton, ma non potendosi ancora decifrare i geroglifici, si saprà poi che il raffigurato era l’onnipresente Ramesse II, il faraone più potente e famoso della storia egizia. Fu siglato un patto-contratto tra il Salt e Belzoni, al quale venne affidato l’incarico del gravoso trasporto di quel monolite. I rapporti tra il padovano e il Salt non saranno mai lineari, ma l’inglese lasciò scritto su di lui: «È infaticabile e molto diligente in tutte le sue operazioni. A tutte queste doti bisogna infine aggiungere un’intelligenza brillantissima». Non fu difficile ottenere dal pascià tutti i “firmani” per portare a termine l’operazione. Pur consigliato dal Burckardt di far omaggio al principe reggente d’Inghilterra di questo monumento, Mehemet Alì non voleva credere che un principe potesse gradire un dono di pietra!

Belzoni partì per questa missione il 30 giugno del 1816, ma pur munito di tutte le autorizzazioni per il lavoro da svolgere e per arruolare operai locali, non ebbe vita facile con i vari aghà, kasheff e caimakan del luogo, che cercavano ogni pretesto per estorcergli dei regali; in più il padovano non s’accorse per tempo che la sua collaborazione con il console inglese gli faceva perdere via via la primitiva benevolenza di Drovetti e della sua cerchia. In ogni caso servendosi di poche leve, di funi di fibra di palma, di una pedana con quattro rulli e dell’aiuto di decine di indigeni, in pochi mesi riuscì nel suo intento in mezzo a condizioni climatiche avverse, logoranti trattative con capi e capetti locali, trovando la pazienza per sopportare dilazioni continue dei suoi programmi e le frequenti diserzioni degli operai. «Certo i suoi sfoghi di impotenza di fronte alle autorità e alla grettezza dei funzionari arabi – scrive l’egittologo Alberto Siliotti – sono tanto frequenti da farci pensare che l’ostacolo maggiore alle sue scoperte fosse costituito non da difficoltà oggettive ma dagli impedimenti imprevisti che continuamente gli venivano posti».

Lo spostamento del colosso effettuato da Giovanni Battista Belzoni nel 1816 (Wikipedia).

L’apertura del tempio rupestre di Abu Simbel

Una situazione molto simile egli dovette affrontare durante la sua seconda impresa, condotta prima e dopo il faticoso trasferimento del busto di Ramesse II, cioè l’apertura dell’ingresso del grande tempio rupestre di Abu Simbel, in Nubia, allora quasi interamente coperto dalla sabbia accumulatasi da scoli e secoli. Era stato scoperto solo quattro anni prima proprio dall’amico Burckardt. I lavori di sgombero furono lenti, spesso interrotti dalla mancanza di viveri e denaro, e ripresi con maggior determinazione dopo l’imbarco del colosso Ramesse II.

Giovane Memnone (Busto colossale di Ramses II in granito, metà del XIII secolo)

Nel frattempo Belzoni, nelle sue ricognizioni in Alto Egitto, nel settembre 1816 prese possesso, per conto del Salt, di un obelisco di sette metri che aveva scorto nei dintorni del tempio di Iside nell’isola di File. Detto per inciso, il futuro asporto di questo obelisco con iscrizioni, tra l’altro importante per la decifrazione dei geroglifici con la stele di Rosetta, avrebbe provocato la definitiva rottura con il gruppo francese di Drovetti. Come si sa, agli inizi questi si era mostrato benevolo nei confronti del padovano, anzi gli aveva anche detto di tenersi il grande sarcofago di Ramesse III, giacente in una caverna di Gurnah, all’imbocco della famosa Valle dei Re, per lungo tempo luogo di sepoltura per faraoni e dignitari del Nuovo Regno. Belzoni ebbe modo di compiere subito in quest’ambito delle importanti scoperte, tra cui la tomba del faraone Ay, successore di Tutankamon, ma priva della mummia. I reperti raccolti nel periodo del suo primo viaggio (30 giugno-15 dicembre 1816), vennero inviati ad Alessandria prima ancora dell’imbarco dello stesso busto colossale. Al Cairo Salt gli propose di unirsi al capitano Caviglia nelle operazioni di scavo attorno alla grande piramide. Belzoni rifiutò non volendo dividere i meriti con un uomo che già aveva fatto molto da solo. Lui avrebbe atteso le sue occasioni.

Nel corso del suo secondo viaggio in Alto Egitto (20 febbraio-21 dicembre 1817), lasciata Sarah al Cairo in casa di amici, Belzoni ritornò ad Abu Simbel per continuare il disinsabbiamento e l’esplorazione del grande tempio e penetrare al suo interno. Questa volta era accompagnato da altri personaggi inglesi, dallo stesso segretario del console, William Beechey, dal mercante greco D’Athanasi e dal ferrarese islamizzato Giovanni Finati, il “giannizzero” in qualità d’interprete. Era una precauzione necessaria, anche perché le rivalità con il gruppo francese erano diventate evidenti.

In giugno arrivò anche Sarah, che s’insediò nella parte superiore del tempio di Iside nell’isola di File, desiderosa di conoscere usi e costumi delle donne locali avvicinate con il dono di perline europee e pure intenta, come il marito, a scrivere le sue note di viaggio in cui appare assai coraggiosa soprattutto nel respingere i soprusi e le scorrerie dei berberi nubiani.

Anche lo scavo del grande tempio fu interrotto da traversie e contese con i capi locali come per la prima impresa, ma il primo agosto il gigante padovano ebbe la soddisfazione di penetrare all’interno del tempio: «Allargammo il passaggio discoperto – lascia scritto – e avemmo il piacere di essere i primi a discendere nel più bello e più vasto sotterraneo della Nubia, ed esaminare un monumento che può pareggiarsi ai più belli monumenti d’Egitto. Al primo sguardo restammo stupiti dall’immensità di quel luogo; trovammo oggetti d’arte magnifici, pitture, sculture, figure colossali». All’interno del tempio la temperatura raggiungeva gli oltre 50 gradi e il sudore delle mani bagnava le carte. Non furono rinvenuti reperti di valore quantunque le leggende del luogo parlassero di tesori nascosti.

La scoperta di otto mummie nella Valle dei Re

Ritornati i compagni al Cairo, alla fine di settembre Belzoni si riportò nella Valle dei Re. Anche stavolta ebbe l’abilità e la fortuna di scoprire una tomba con otto mummie, quella del principe Mentuherkempeshef, quindi quella piccola ma con belle pitture di Ramesse I, due mummie, una statua di legno di sicomoro e molti “ushabti”, statuette votive per defunti.

Esplorò a fondo una quarta tomba che aveva visitato in aprile. Il 18 ottobre 1817 l’esploratore di tombe egizie, guidato dal suo occhio clinico, dal suo intuito e dalle sue esperienze di idrologo provetto, ebbe l’opportunità di compiere la sua scoperta più rilevante sotto l’aspetto storico-scientifico, quella della più grande, lunga, decorata e quasi intatta (per allora) tomba faraonica del Nuovo Regno, appartenente a Sethi I (lui l’attribuì a Psammetico), padre di Ramesse II, che da allora fu chiamata “la tomba di Belzoni” per antonomasia. Il suo ingresso si trovava a sei metri circa nel sottosuolo, sotto l’alveo di un torrentello. Dopo più di cento metri di scale, corridoi, pozzi, pareti finte, sale con pitture policrome, nella sala funeraria trovò uno splendido sarcofago d’alabastro, privo tuttavia della mummia del faraone. Appariva talmente luminoso che, lasciò scritto: «Ponendo un lume dietro alla parete di esso appariva trasparente; e dentro e fuori era coperto di rilievi, consistenti in centinaia di piccole figure alte non più di due pollici di grossezza, le quali, a quello che m’è sembrato, rappresentano tutta la processione funebre del morto deposto nel sarcofago, diversi emblemi ed altre cose allusive. L’ Europa non ricevette mai dall’Egitto un pezzo antico della stessa magnificenza: sfortunatamente vi mancava il coperchio, il quale ne era stato levato e rotto, e del quale trovammo alcuni frammenti nello scavo che femmo dinanzi alla prima entrata».

Evidentemente anche la mummia di quel faraone come altre era stata portata al sicuro (fino alla scoperta del nascondiglio nel 1881) dai sacerdoti in località Deir el Bahari.

Sarah Belzoni

Sarah Banne 1783 -1870

Pochi anni dopo questo stupendo reperto verrà stranamente rifiutato dal British Museum, allora in periodo d’austerità, e morto Belzoni in Africa Occidentale (Nigeria), verrà acquistato da sir John Soane per 2000 sterline e collocato nel suo museo privato londinese: tutto il denaro finirà al Salt e niente alla povera Sarah Belzoni. Altra triste storia nella vita breve dell’esploratore padovano. Con l’aiuto del medico e disegnatore senese Alessandro Ricci, lo scopritore volle riprendere gran parte delle bellissime pitture della grande tomba dell’ignoto (allora) faraone ed eseguire i calchi dei molti bassorilievi, nel complesso più di ottocento. La ricostruzione di stanze della tomba di Seti I sarà il pezzo forte della magnifica mostra sull’Egitto che Belzoni organizzerà a Londra nel 1821 e poi altrove.

Nello stesso anno 1818 Sarah decise di compiere un viaggio che le stava a cuore da tempo per conto suo, data l’indisponibilità del marito occupato nei suoi lavori, cioè un viaggio in Terrasanta accompagnata da James. Proprio in questa personale avventura, vestita da uomo turco ebbe modo di mettere in evidenza la sua audacia, il suo spirito d’osservazione e una certa temerità che le avrebbe potuto costare caro: il suo piano, prima di lasciare Gerusalemme, prevedeva di visitare la grande moschea di Al Aqsa nel sacrario delle moschee, allora vietate agli infedeli e alle donne. Con una certa fortuna ci riuscì, ma la sua impresa mise in subbuglio la comunità cristiana, timorosa per la vita di quell’inglese senza paure o di essere ricattata per averla ospitata. Sarah abbandonò la città santa appena possibile e tutto il suo viaggio sarebbe stato pubblicato in appendice al libro di viaggi del marito, che sarebbe andato a ruba in Inghilterra già nel 1820.

La piramide di Chefren

Cairo (Egitto), Piramide di Chefren

Ritornato al Cairo, Belzoni s’impose di tentare un’impresa, anzi una scoperta che per i tempi aveva dell’incredibile, cercare cioè l’entrata della seconda piramide, quella di Chefren, che allora si riteneva solida e non un monumento funerario come quella di Cheope. Compiendo comparazioni con questa, il padovano rilevò l’esistenza poco consistente dell’ammasso di pietre sul lato nord. Dopo aver assoldato con discrezione un’ottantina di operai, tentò uno scavo che si rivelò infruttuoso, ma perseverando le comparazioni con l’ingresso della maggiore, il 2 marzo 1818 con grandissima soddisfazione poté rinvenire l’accesso al cunicolo che portava alla stanza funeraria, purtroppo anche questa volta con il sarcofago vuoto.

Aveva potuto smentire lo stesso Erodoto e svelato il mistero di quella meraviglia del mondo. Questa fu la scoperta che produsse il maggior scalpore in Europa. A dire il vero quella era una scoperta per i tempi moderni: infatti una scritta in arabo all’interno, risalente al XIII secolo, provava che la piramide era già stata visitata. Belzoni si poteva comunque considerare il vero scopritore poiché dell’altra visita non rimaneva testimonianza alcuna. A Londra, a ricordo della scoperta, avrebbero coniato delle medaglie con il busto di Belzoni da una parte, e la piramide dall’altra (che appariva tuttavia la prima e non la seconda, che aveva il culmine con il primitivo rivestimento).

Prendendo in esame il racconto del Belzoni, si comprende come nel suo terzo viaggio in Alto Egitto (28 aprile 1818 – febbraio 1819), si rileva che il pensiero costante dell’italiano era fisso ai lavori nella tomba di Seti I. Volendosi anche rendere sempre più autonomo nei suoi scavi, trovò che il Salt e Drovetti a Tebe si erano spartiti le rispettive zone di ricerca. Lavorò allora in un terreno abbandonato tra il Ramesseo e Medinet Habu, a sinistra del Nilo, dove tra l’altro rinvenne alcune statue della nota dea Sekmet, simili a quelle già trovate a Carnak, due delle quali avrebbe inviato come dono a Padova. L’attività di riproduzione dei rilievi e delle pitture della grande tomba manteneva sempre la priorità, e il dottor Ricci eseguiva i lavori con gran perizia.

Alla ricerca della città tolemaica di Berenice e il recupero dell’obelisco dell’isola di File

Invece di raggiungere la moglie a Gerusalemme come promesso, Belzoni ebbe occasione di organizzare un viaggio verso il mar Rosso: Lo scopo era la ricerca dell’antica città tolemaica di Berenice, fondata da Tolomeo II Filadelfo. Non lo convinceva la relazione del francese Cailliaud, che in un’esplorazione compiuta su incarico del pascià, aveva scritto essere quell’antica città più a nord.

Dopo aver fatto pervenire i suoi nuovi reperti al Cairo, il 16 settembre1818 Belzoni partì con la sua carovana per questa nuova avventura. Giunto a Edfu prese la via del deserto alla volta del mar Rosso, ripercorrendo l’itinerario del francese accompagnato dal segretario del console Beechey e dal Ricci. Questi cadde ammalato durante il viaggio e fu costretto al ritorno. Anche in questa occasione l’intuito del geniale “neoegittologo” aveva visto giusto con la scoperta della vera Pompei egizia, che fu raggiunta e perlustrata l’8 ottobre: fu ritrovato anche un piccolo tempio: «il quale – scrive il viaggiatore – era quasi tutto seppellito sotto la sabbia, siccome lo era pure l’interno delle case». Quaranta giorni durò questa spedizione: la vera Berenice era stata trovata e le conclusioni dell’esploratore francese in gran parte smentite.

Dettaglio delle complesse decorazioni della tomba di Seti I. Nel registro inferiore, la seconda ora dell’Amduat; sul soffitto, la volta celeste e le costellazioni.

Si è già accennato al fatale obelisco dell’isola di File. A Gurnah, il villaggio all’imbocco della Valle dei Re, Belzoni si accordò con il Salt sui terreni da scavare. Drovetti si fece avanti per l’acquisto, rifiutato, del sarcofago d’alabastro. Sir William Bankes invece si offrì per pagare le spese per l’asporto dell’obelisco. Drovetti cercò di accomodarsi con i concorrenti, ma si rese conto di essere stato ingannato dagli abitanti di Assuan, che gli avevano venduto il monumento promettendogli anche il trasporto dello stesso senza eseguirlo. In ogni caso il piemontese «rinunciava di buon cuore al possesso di questo oggetto antico».

A che cosa mirava? Difficile saperlo, ma Belzoni ebbe qualche sospetto sulle intenzioni del gruppo francese, che tentava di aggirare l’aghà di Assuan facendogli credere che i geroglifici dimostravano che l’obelisco era appartenuto agli antenati del console. Belzoni intervenne riuscendo a far cambiare idea al funzionario anche con un presente e si predispose a quella nuova impresa.

Tutto sembrava filare liscio, quando il manufatto improvvisamente cedette e finì in acqua. Il gigante italiano non si perse d’animo: calando dei blocchi sott’acqua, utilizzando lunghe leve e dei “palombari” che puntellavano l’obelisco, questo fu recuperato in due giorni per la gioia del sir inglese. Il monumento superò anche i pericoli della prima cataratta mediante funi controllate dalle sponde del fiume.

I successi di Belzoni, le gelosie dei francesi, le aggressioni e il processo

Il nuovo successo di quell’italiano al servizio degli inglesi inviperì Drovetti e compagni: il domestico del padovano fu malmenato e lui stesso poco dopo subì una violenta aggressione verbale in cui mantenne sangue freddo. Fu sparato anche un colpo d’arma da fuoco forse a scopo intimidatorio. Sarah scrisse che avrebbero tentato di assassinarlo. Belzoni comprese presto di esser giunto a un punto limite e che i suoi strepitosi successi avevano avvelenato la rivalità con i concorrenti. Recuperò senza incidenti il sarcofago d’alabastro che venne pure imbarcato. Fortunatamente la moglie in sua assenza aveva liberato per tempo la tomba da fanghiglia e detriti dopo un violento acquazzone: il vapore acqueo infatti stava per screpolare le bellissime pitture.

Il 27 gennaio1819 abbandonò definitivamente Tebe per il Cairo proseguendo per Rosetta, dove l’attendevano i suoi preziosi reperti e le riproduzioni della grande tomba, tra cui il bellissimo coperchio del sarcofago di Ramesse III, che sarebbe finito al museo universitario di Cambridge (e il sarcofago, per altre vie, al Louvre).

In attesa che ad Alessandria si svolgesse il processo intentato dal viceconsole inglese Lee per l’aggressione subita a Luxor, Belzoni volle sfruttare il tempo che gli restava prima di partire per l’Europa compiendo un’ultima esplorazione nel Fayum e nel deserto occidentale del Basso Egitto, «dove molti viaggiatori vi avevano cercato il tempio di Giove Ammone senza poterlo trovare», il cui tempio-oracolo era stato visitato da Alessandro Magno e da re Creso (Oasi di Siwa). Il 20 aprile 1819 il padovano, lasciata la moglie al Cairo con il suo piccolo zoo, con una guida si avviava a Beny Suef da dove pervenne al lago di Meride. Quest’ultimo viaggio appare alquanto diverso dagli altri, più fascinoso, misterioso e ricco di avventure, anche se la meta finale non fu raggiunta e l’esploratore giunse solo all’oasi di Baharija (El Kassar) scambiandola con quella di Siwa, distante ben oltre cento chilometri più a ovest.

Ritornato ad Alessandria Belzoni testimoniò al processo contro gli agenti di Drovetti, ma tutto finì in una grottesca commedia presso il consolato francese, che si dichiarò non abilitato a procedere in quanto gli accusati erano “piemontesi” e il processo avrebbe dovuto svolgersi in quello stato.

Il ritorno a Padova e poi a Londra

L’avventura egiziana per Belzoni era definitivamente conclusa e a metà settembre con Sarah s’imbarcò per Londra, via Venezia e Padova, scrivendo nel suo diario: «Non creda il lettore che il paese in cui mi trovavo non mi piacesse, perché ho invece motivo di essere riconoscente alle persone che vi ho incontrato; né mi lagno dei turchi o degli arabi, salvo qualche eccezione, ma di alcuni europei residenti in Egitto, il cui contegno e la cui mentalità costituiscono una vergogna per il genere umano».

Dopo aver sostato qualche tempo a Venezia per il fatto di provenire da un paese ancora una volta preda della peste, in dicembre Giambattista poteva rivedere la sua Padova, riabbracciare la cara madre e i parenti che non vedeva da vent’anni. Le accoglienze della cittadinanza furono entusiastiche, le feste, i resoconti giornalistici e i componimenti in suo onore furono numerosi. Si fece molti amici illustri tra i personaggi del tempo, tra cui l’architetto Jappelli, che lo ricorderà con una sala egizia nel futuro Caffè Pedrocchi. Gli fu anche promessa dalle autorità una medaglia commemorativa, che gli arrivò in seguito a Londra, anche come segno di riconoscenza per il dono delle due statue egizie.

Padova, Caffè Pedrocchi (Foto Antonio Fiorito)

Per i parenti affittò una casa a Monselice, perché soprattutto la madre potesse godere di buone arie e frequentare i vicini bagni di Battaglia Terme. Tentò anche di far acquistare al museo di medicina dell’Università tre mummie, ma il governo di Vienna impedì un accordo ormai stipulato.

In marzo era già a Londra. Entro l’anno1820, il suo resoconto, Viaggi in Egitto e Nubia, era già pronto con 44 tavole di disegni colorati, un libro che divenne subito un best seller con varie ristampe e traduzioni in francese, tedesco, fiammingo, e nel 1825-26 anche in italiano con Sonzogno. In Inghilterra Belzoni divenne un vero personaggio, ricercato e ammirato anche nella cerchia dei dotti e della stessa Casa Reale. Diventò amico infatti del principe Augusto Federico, che lo ammise persino nella sua Loggia Massonica come segno di distinzione. Tra gli altri ebbe intimi romanzieri e poeti come Walter Scott, Thomas Campbell, Isaac D’Israeli, il giornalista Cyrus Redding, l’editore John Murray. Il suo trionfo, come detto, avvenne con l’inaugurazione della grande mostra egizia all’Egyptian Hall di Piccadilly nel 1821, ma senza il sarcofago d’alabastro di Seti I, in procinto di partire. La mostra fu poi trasferita a Parigi l’anno seguente, e l’allestimento prese corpo proprio in coincidenza con la proclamazione, da parte di Champollion, dell’avvenuta decifrazione dei geroglifici, riuscita anche con l’apporto delle iscrizioni sull’obelisco di File, conoscenza di cui l’italiano non poté avvalersi. Come personaggio del momento Belzoni fu ricevuto con molto onore anche dallo zar di Russia Alessandro I, dal quale ricevette magnifici omaggi, in un suo viaggio attraverso i paesi del nordeuropea.

L’ultimo viaggio

L’ultimo viaggio della sua vita, il gigante padovano lo effettuò per assecondare antiche aspirazioni dell’Associazione Africana di Londra (la stessa dello scomparso amico Burckardt), che miravano alla conoscenza del corso del fiume Niger in Africa occidentale e raggiungere la città carovaniera di Timbuctu, allora avvolta nel mistero. Partito con Sarah raggiunse il Marocco, dove si congedò dalla consorte.

Belzoni City (Mississipi) Il Tribunale

Mirava infatti oltrepassare la catena montuosa dell’Atlante, ma ne fu dissuaso dal sultano perché l’itinerario presentava forti rischi per le tribù in guerra. Decise allora di raggiungere il Sahara da sud, partendo dal golfo di Guinea dove esistevano empori inglesi. Ma anche per Belzoni l’esplorazione di queste lande africane fu fatale. Morì ufficialmente di dissenteria il 3 dicembre 1823, a 45 anni, proprio mentre era sulla via per Timbuctu. Fu sepolto dagli amici inglesi con ogni onore, ma la sua tomba (nell’attuale Nigeria) con il tempo si è persa. Anche la sua morte non è priva di mistero, per il fatto che un viaggiatore e console inglese avrebbe raccolto dagli indigeni voci di un suo avvelenamento da parte di un capovillaggio dopo essersi ammalato. Questi avrebbe agito allo scopo di derubare lo straniero. Come in Egitto, non sempre questo pioniere ha avuto ammiratori e sostenitori. Importante è stato il bicentenario della nascita per ristabilire il suo ruolo storico nella riscoperta dell’antico Egitto. Al Cairo, a Londra, a Padova sono stati messi a fuoco i meriti e la genialità di questo irregolare della scienza. Soprattutto l’intervento a Padova del professor Silvio Curto, allora direttore del Museo Egizio di Torino, è apparso illuminante. Tre i meriti fondamentali del padovano per l’egittologo torinese.

Primo: Belzoni intese la ricerca per la ricerca, in maniera disinteressata, non basata sull’estetica del monumento o del reperto, quel disinteresse che deve caratterizzare il vero sapere scientifico.

Secondo: considerò ogni monumento come documento, fonte storica per se stesso, nel suo contesto ambientale e storico, una lezione fatta presto propria dagli inglesi e altri ricercatori.

Terzo: oltre a ricercare, disegnare, annotare e pubblicare tempestivamente le sue esperienze, il padovano si preoccupò di divulgare le proprie scoperte. Infatti le riproduzioni e i calchi in cera della grande tomba sono stati esposti al pubblico con successo.

Infine due parole sulla consorte Sarah Banne. Nel 1833 se ne andò a vivere in Belgio, appena indipendente, forse per motivi legali o altro. Sempre forte e fiera, visse nel ricordo del marito tenendone costantemente viva la fama, spendendosi per la causa risorgimentale italiana, collaborando con Giuseppe Mazzini e il poeta, letterato e patriota esule italiano (trevigiano) Francesco Dall’Ongaro. Morì a 87 anni nell’isola normanna di Jersey nel 1870, avendo ottenuto una pensione dal governo inglese in virtù dei meriti culturali acquisiti dal consorte.

Gianluigi Peretti

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