Torquato Tasso, poema di Jacopo Cabianca

Abstract

Torquato Tasso e Jacopo Cabianca: due poeti che ebbero in Padova la loro educazione culturale, entrambi iscritti alla facoltà di legge presso questa Università, dove il Tasso frequentò più i letterati come Sperone Speroni e i filosofi come Carlo Sigonio che le aule di diritto. Il Cabianca ha scritto novelle in versi tra cui Lucrezia degli Obizzi (1830), sul delitto che sconvolse la Padova del seicento, e alcune raccolte di poesia tra cui Ore di vita (1837) e due poemi dal titolo Il Torquato Tasso, sulla vita e sulla poesia del Tasso, il primo in tre canti e il secondo in dodici canti. La scrittura del poema è fortemente caratterizzata da immagini legate al mondo della natura e basa i suoi effetti sulla similitudine. Anche Giacomo Zanella, amico del Cabianca che ne scrisse la Commemorazione funebre, qui in parte riportata, ebbe importanti incarichi presso l’Università di Padova fino a diventarne rettore.

L’ Autore

Nato in Vicenza il 14 febbraio 1809 fu posto fanciullo nel collegio Benatello di Padova, ove di quindici anni scrisse un poemetto sui Colli Berici. Ebbe dalla natura singolare disposizione alla poesia: un vivo sentimento del bello; una facile immaginazione; un cuore mobile ad ogni tenero affetto; un orecchio finissimo a cogliere i più svariati toni dell’armonia… Passato all’Università di Padova attese agli studi legali (1), come vi attesero il Tasso ed il Monti” e molti altri poeti di cui abbiamo già dato conto in un precedente articolo.

[…]

“Prendo in mano il suo libro giovanile Ore di vita. Pochi poeti hanno avuto un esordio così splendido. La passione d’amore è ritratta in que’ versi con verità meravigliosa: veri i luoghi descritti: vere le vicende ora liete, ora tristi: immagini scelte e spesso nuove: verso scorrevole, armonioso, colorito: lingua schietta e vigorosa. Giudico quelle poesie la cosa più bella che sia uscita dall’anima del Cabianca, che la scrisse a soli venticinque anni”.

Era un elogio perfino eccessivo da uno come lo Zanella che giudicava i poeti più importanti del tempo in questo modo: “il Marino, l’Arcadia, il Frugoni … dopo aver empiuta del loro nome l’Italia e mezzo l’Europa, furono messi al posto che loro conveniva; aveano stordito il presente, ma l’avvenire li ha giudicati; tremendo giudice, che altri con dichiararsi ‘avveniristi’ vorrebbero forse ingraziarsi”. Del resto Zanella, se loda le prime poesie, è assai severo sulle novelle in versi del Cabianca: Speronella, l’Angelica Montanini, il Cavaliere fedele e il Castello di Montegalda: “Com’è di tutte le imitazioni, cioè delle poesie, che non isgorgano spontaneamente dal cuore, que’ suoi lavori non sono ora più letti, quantunque la ottava, suo metro prediletto, vi sia trattata da vero maestro“. (2)

Il poema

Veniamo al poema Il Torquato Tasso: lo Zanella loda la prima stesura, mentre stronca la seconda:

I tre canti, che ha dettati sul Tasso portano l’impronta di una vigorosa fantasia e di un fervido cuore. Per quante siano le mende, che un severo lettore può notare in quel poemetto, vi sono alcune ottave che dureranno immortali, finché gl’Italiani conserveranno il sentimento del vero bello poetico. Più tardi volle rifare quella tela: scompose i tre canti giovanili in un lungo poema, che abbraccia tutta la vita del Tasso dall’infanzia alla morte; ed ebbe la sorte medesima, se non peggiore, del suo protagonista, che volle alla Gerusalemme Liberata sostituire la Conquistata”. (3)

Ci permettiamo di non essere del tutto d’accordo con lo Zanella sul poema in dodici canti e cerchiamo di darne una motivazione: la caratteristica principale di queto poema è la capacità del Cabianca di descrivere in versi una biografia del Tasso, con una sensibilità affatto moderna e l’analisi dei sentimenti e dei drammi interiori di Torquato; la nascita a Sorrento, i drammi familiari: la fuga del padre caduto in disgrazia perché fedelissimo del principe di Sanseverino, che segue nell’esilio, il distacco dalla famiglia, la morte della madre, la corte di Alfonso d’Este a Ferrara, gli amori impossibili, le invidie dei cortigiani, le gelosie dei letterati di corte, come il Montecatini, le maldicenze, le prime crisi forse di tipo persecutorio che culminano in un’aggressione che lo porterà al primo internamento, l’impegno speculativo e nella scrittura, i dubbi circa il suo maggiore poema la Gerusalemme, le fughe, le peregrinazioni fino alla morte a Roma. Chi volesse conoscere in dettaglio la vita del Tasso avrebbe in questo poema una guida sicura.

Altra caratteristica significativa sul piano poetico è la capacità del Cabianca di esprimere plasticamente i sentimenti del protagonista e degli altri personaggi attraverso un uso costante di similitidini tratte dagli eventi naturali che lo rivelano un attento osservatore della natura

Gli stati d’animo vengono descritti attraverso l’evolvere della vita naturale di fiori, piante, animali, eventi atmosferici e ogni sentimento è riflesso nei fenomeni della natura che ne danno l’intensità, la forza, la durata, raramente un evento naturale è descritto per se stesso, indipendentemente dalle persone che in quel momento il poeta mette in campo. Interessante è anche la descrizione dei luoghi dell’azione, come, ad inizio del poema, la descrizione di Sorrento:

                 D’infra tutte bellissima e gentile Gode Sorrento di un tepido cielo; Qui il sol risplende d’un perenne aprile, E le sue notti non conoscon velo: Né quando la stagion muta di stile Intristisce il terren per nebbia o gelo; Ma il cedro eterno tra la verde chioma Spiega il tesor delle dorate poma. (I, IV)

Diamo qualche esempio di similitudini legate ai fenomeni naturali: ecco la notte, che invita al riposo, un classico di tutte le letterature:

                Come è grata quest’ora! In ogni canto Tace quïeta de’ mortali l’opra (I, LXXXVI);

ed ecco l’aurora che man mano rischiara e rende visibile ogni cosa mentre le ombre della notte si ritirano:          Ma alfin per entro la scena indecisa Prendon spazio gli oggetti, e intorno intorno Sempre più disegnandosi precisa, Ogni forma ne appare, ogni contorno. Vinte intanto e cacciate all’improvvisa Luce, che nunzia il rinascente giorno, Si ritirano l’ombre ad intervalli, Perdendosi nel fondo delle valli. (IX, III);

ecco l’aprile e la natura che si ridesta:

                È una notte d’aprile: un venticello Corre sull’acque e in lene alito desta La fredda terra, cui il tempo novello Mette d’erbe e di fior splendida vesta (VIII, XIV).

L’esiglio del poeta: la natura fa il suo corso, ma il Tasso non ne può godere, preso nella morsa della solitudine:

                Esule ei parte. – Oh! delle angosce umane Quale mai seco I’esule non porta? L’addolora il presente, e la domane Più terribile ancor Io disconforta; Ha fame, e alcuno non gli frange un pane; Batte, e nessuna man gli apre la porta; Egli nelle fatiche, egli nel duolo In tutte le miserie è solo – è solo. (I, LXXXIX)

                Notte a notte succede, e giorno a giorno, E viene e torna al suo vïaggio il sole; Ma il dì non s’alza mai del suo ritorno, Né batte l’affrettata ora ch’ei vuole: Ascolta i lieti popoli d’intorno Festeggiarsi d’incognite parole, Che non somiglian d’una voce alcuna Alla canzon che l’addormiva in cuna (I, XC)

                Chinansi i rami dalle poma oppressi, Per le valli graniscono le biade; Ma non per lui maturano le messi E un frutto sol nel suo panier non cade. Altri beato di soavi amplessi All’amore tripudia, alla beltade; Egli nelle fatiche, egli nel duolo In tutte le miserie è solo – è solo!  (I, XCI).

Significativo  anche il confronto che il Cabianca fa del lavoro intellettuale, che non ha mercede e sosta, con i lavori manuali, il contadino, il minatore, perfino lo schiavo, che dopo le fatiche trovano riposo:

                Sono aspri i giorni del villan che dura Vita infelice e di continuo stento: Egli è ne’ campi colla notte scura, Ed alla pioggia il dì consuma e al vento: Pur della messe, che lenta matura, dopo assiduo sperar, giunge il momento, Ed al sudor del provvido bifolco Una volta risponde almeno il solco. (IX, I)

                Nascoso in mezzo il cupo loco immondo, Al sol, ch’è fonte delle gioie umane, Della terra nel viscere profondo Dimenticato il minator rimane: Ma quando egli alla fine esce del mondo All’äer vivo, e di un atteso pane La moglie e i macri figliuolin disfama, Al patito dolor grato si chiama. (IX, II)

                Anch’ei, lo schiavo, che la fronte oppressa Curva di sotto del bastone e tace, Lo schiavo anch’ei colle tenébre cessa Dagli stenti inumani e torna in pace; Ed, in quell’ora al riposo concessa, Riede sull’ali del pensier vivace Alla patria negata, e in lene obblio Ricanta la canzon del ciel natio. (IX, III)

                Così, alla fin dell’opra sua, ritrova Ciascuno giornaliero una mercede; Ma quei che in lunga, combattuta prova Pose l’ingegno, l’anima e la fede E col sudor dell’intelletto giova, Come quaggiù rimeritar si vede? Qual premio ha mai che degnamente agguagli I giorni consumati e i suoi travagli? (IX, IV)

Un esempio della capacità del Cabianca di descrivere gli stati d’animo: l’orrore che coglie il Tasso all’incontro inaspettato e casuale con il principe di Sanseverino, ridotto pressoché in miseria, causa di tutte le disgrazie del padre e della famiglia:  

                Se un’ombra päurosa e minacciante Avesse visto il Tasso all’improviso Da sotto della terra uscirgli avante, Meno attonito in lei sariasi fiso E senza il raccapriccio onde all’istante Sin dentro il core si sentì conquiso Quando del prence di Salerno al nome Gli si rizzaro per orror le chiome. (IV, XLVIII)

Cabianca sa descrivere soprattutto i momenti di depressione, di solitudine, di angoscia del poeta perché senza patria, senza famiglia, preso da un impossibile amore, cortigiano infelice alla corte di Ferrara, osteggiato e dileggiato e poi prigioniero innocente; davvero magistrale è la descrizione del mondo degli sventurati compagni del Tasso a Sant’Anna:

                Fra i molti alcun, pria che alla vita uscito, Istupidì dal suo concepimento Ne’ visceri materni; altri ha patito Della ragion per subito spavento. Il corpo loro è obeso, intorpidito, Privo di volontà, di movimento: E sin la bocca inoperosa e vana Dimenticossi ogni parola umana. (IX, XII)

                Chi piange ognora, e chi, per sciocca festa, In fantastiche gioie ebbro si culla; Onde l’idea nell’uno  sempre mesta, Ride invece nell’altro e si trastulla. D’odio, d’amore in lor senso non resta, Ché ogni memoria del passato è nulla; E l’oggi ed il doman per essi è senza O desiderio, o almen reminiscenza. (IX, XIII)

                Contro i vegnenti sovra i pié feroce Minacciando il frenetico si drizza: E, qual cane al guinzaglio, se ne cuoce E in se disfoga la rabbiosa stizza. Dal gonfiato suo collo esce la voce, Anzi un urlo, e dagli occhi il sangue schizza, Insin che tutto un fremito l’invade, E si dibatte e come morto cade. (IX, XIV)

                Ahi gl’infelici, in Dio nostri fratelli! E ad essi una famiglia avrà sorriso, E avranno amato, e i nostri affanni e quelli Gaudii, che noi proviamo, avran diviso! Ebbero onori e stato e furon belli Di giovinezza e di un leggiadro viso, Ed or compagni allo stupido bruto Ogni umana fattezza hanno perduto. (IX, XV)

                Amor tradito, ed amistà delusa, Invidia che manduca assenzio e fiele, Necessità che a ogni speranza è chiusa, Gelosia che si nutre di querele, Lussuria che nessun pasto ricusa Fortuna instabil sempre ed infedele, Hanno il dolente loco popolato D’ogni tormento e d’ogni tormentato. (IX, XVI)

                Ma per costoro che nei passi amari Vïolenza d’altrui spesso ha condotto, Gran bisogno saria di miti e cari Modi a raccor meno infelice un frutto; D’una pietà che lor venisse a pari, E d’un amore apparecchiato a tutto, Cui pazïenza e soavi parole Balsamo fosser ch’ogni duol console. (IX, XVII)

                Invece la pietà qui giace morta, E la man, che a mercé dovriasi aprire, Inesorabil s’alza e seco porta Le catene e i flagei ministri all’ire; Onde gli afflitti, cui nessun conforta, Penan d’ogni dolor sino al morire; E di lui, che colpì tanta sciagura, Men che d’inutil bestia altri si cura. (IX, XVIII)

                Questi compagni dolorosi, o Tasso, Questa la stanza tua, anzi il covile. Dove per te, dimenticato e lasso, Fortuna mai non muterà di stile. Ahi! come e quanto se’ caduto al basso, O tu de’ cavalieri il più gentile; A quai miserie estreme, a quanto lezzo L’empio destino t’ha condotto in mezzo! (IX, XIX)

Questi lunghi anni a Sant’Anna, messo in catene, le privazioni, la sporcizia, l’abbandono fanno perdere al Tasso la ragione, il senso di realtà e lo portano al delirio, alle allucinazioni:

                Tale per tutto il dì, poi come cala La notte, madre d’ombre e di paure, Ed ha con sé di vipistrel sull’ala Uno stuol di fantastiche figure, Più tristamente disperato ammala, Né v’ha forza o ragion che il rassicure, A modo di pastor ch’ode pel fosco, Da lontano il leon ruggir nel bosco. (IX, LXVIII)

                Invano allora supplicando ei move All’inchiesta di povera lucerna, Che di un dubbio chiarore almen lo giove In quella oscurità che pargli eterna, Dov’egli vede, in forme orride e nove, Mostri e folletti andar per la caverna, E muover salti e menar ridde intorno Sin che li caccia il rinascente giorno. (IX, LXIX)

                Talvolta desto in subita paura Pargli udire un rumor d’aspre favelle, E d’ali uno stridor su per le mura E voci chiocce e suon di man con elle; E vede lente dalla terra scura Levarsi vagolando altre fiammelle, E cento facce paürose ed ebre Rischiarar quelle mobili tenébre. (IX, LXX)

                Ne’ sogni irrequïeti, allor ch’ei dorme, Fastidïoso sul petto gli pesa Uno spirto seduto, e nelle forme Di un immane caval se gli appalesa: Né sa gittarlo, o contro dell’enorme Ospite ritrovar scampo e difesa, Ché in strani abbracciamenti ognor più grosso Quel demonaccio gli procombe addosso. (IX, LXXI)

                Tenta alzarsi… nol può: grida… ma in gola Manca rotta la voce; ansante è il petto, E per tutto un sudor tale gli cola, qual dagli ultimi affanni ei sia distretto. Poi quando il sogno reo col dì s’invola Così egli giace disfrancato e inetto, Che dal male di gocciola gli sembra Offese e istupidite abbia le membra. (IX, LXXII)

                Onde qual chi da subito periglio Trova lo scampo in una fuga presta, Egli anelante dal crudel giaciglio Si lancia fuor senza pensier di vesta, E per torsi da quella, che sul ciglio Tanto gli pesa tenebra molesta, Cerca un filo di luce che l’illuda, Presso il breve pertugio della muda. (IX, LXXIII)

                A quelle ferree sbarre ei tiensi stretto, E la fronte addossandovi e la faccia, Un refrigerio prova anzi un diletto Nel tocco del metallo che lo agghiaccia: E se mai vede sull’opposto tetto Un gatto che sua via notturno faccia, Invidia all’animal gli occhi lucenti Che immagin danno di carboni ardenti. (IX, LXIV)

C’è poi un piccolo capolavoro all’interno del poema ed è il Canto XI, che narra dell’incontro del Tasso in fuga verso Napoli con Sciarra Colonna e con la masnada di banditi al suo comando, della accoglienza amichevole e della vendetta che il bandito compie nei confronti del fratellastro che anni prima aveva bruciate vive madre e sorella di Sciarra e ora ne subiva la stessa sorte, creando disgusto e terrore nel poeta:

                A quest’ora per su di quella cresta Le larghe membra ed il virile aspetto Si drizzano di un uomo, che tutto resta Entro nero mantel cupo e ristretto. Ad ampie falde un cappellaccio in testa, Le mani incrocicchiate ha sul moschetto, E i vigili occhi, come faro ardenti, In ogni parte mobili ed attenti. (XI, V)

                Né il giorno ancora si mostrava affatto, E fuori delle felci e in mezzo i sparsi Castagneti qua e là ecco d’un tratto Un uomo, un altro, e un altro sollevarsi: Fantasmi si dirian che, a un cenno fatto, Di sottoterra allor fossero apparsi Minacciosi, terribili, insolenti, Con lunghe barbe e armati sino a’ denti. (XI, VI)

                Il numero cresceva e appena appena Ritti sui piedi, avrestili veduti Accennarsi del capo e in varia scena Ricambiar delle man moti e saluti: Ma la lor bocca un tal silenzio frena, che più non tacerian se fosser muti; Mentre guardano tutti a un tempo istesso Verso lo scoglio che sorgea là presso. (XI, VII)

                E l’uomo di lassù, fattasi croce Del dito sulla bocca, accenna a loro Con l’altra mano, in luogo della voce, Che ponno andarsi al giornalier lavoro. Allor ciascuno a muoversi veloce, Però qual Certosin ch’esce dal coro, E l’un portando dopo l’altro piede, Silenzïoso e misurato incede. (XI, VIII)

                A insolite faccende e a barbari usi Stassi badando quell’ardita gente: Ché ognuno al suo pugnale e agli archibugi Dapprima guarda attento e diligente; E la punta ne prova, od agli schiusi Bacinetti rimette nuovamente L’infiammabile polve, onde più fresca A sicuro e mortal colpo rïesca. (XI, IX)

                Indi l’armi disposte, altri va sopra Di cavalli uno stuol, che alla foresta Libero pasce e intorno a lor si adopra E le selle e le briglie all’uopo appresta; Altri a veder cosa d’intorno scopra Sale un’altura ed in orecchi resta Se gli venisse strepito di genti Sovra l’accusatrice ala dei venti. (XI, X)

Il fratellastro viene preso mentre con Torquato il bandito stava raccontando la terribile fine della madre e della sorella e il motivo che l’aveva spinto al banditismo, quindi Sciarra compie la sua vendetta:

                […

E… – ma un tumulto di voci confuse A ogni parola le sue labbra chiuse. (XI, XLVI)

                In quel mentre uno stuolo di banditi A sciarra ed a Torquato intorno stero, E la montagna e i corcostanti siti Sonar d’un grido di vittoria fero. Fra lor, stretti da corde e sbigottiti Stavan molti famigli e un cavaliero, E un ordin li seguia di mule carche Di pesanti forzier, di sacchi e d’arche. (XI, XLVII)

                E udiasi il prigioniero da lontano Furïoso gridar – A quale schiatta di ladri e d’infedeli io venni in mano, E a qual mai gente disgustosa e matta! Un Colonnese, un principe romano A tal maniera s’incatena e tratta? Così di colpi e di minacce orrende In mezzo i suoi un cavalier si offende? (XI, XLVIII)

                Come a Sciarra sonàr quelle beffarde Parole, la sua man corse al pugnale, E a somiglianza d’aquila che guarde La desïata preda e batta l’ale, Negli occhi uno splendor torbido gli arde, Gli corre in volto un ribrezzo mortale, E tien così fra i denti un labbro stretto, Che ne schizza di fuori il sangue netto. (XI, XLIX)

                Fiso intanto il poeta ne seguia L’agitarsi convulso e il turbamento, Fra sé cercando indovinar qual sia Ragion di quel furor celato a stento: E non appena il prigionier finia Dal vanitoso, stupido lamento, Tanto alto sollevò Sciarra un ruggito, Che urlo pareva di leon ferito. (XI, L)

                E gittato il cappel, fattosi come Gigante, dritto sulle staffe alzossi, E dalla fronte le corvine chiome Cacciate addietro allo stranier mostrossi: E un motto mormorò rapido, un nome Che da lontano intendere non puossi, Ma che tremendo dello sconosciuto Penetrò dentro il core e il rese muto. (XI, LI)

                Non avvi pallidezza o lividore In faccia d’uom da quattro giorni estinto, Che possa somigliar a quel colore Onde il suo volto si mostrò dipinto. Scappan le luci dall’occhiaia fuore, E tal si trova sgomentato e vinto Che forza gli sarebbe al suol cadesse Dove la mano altrui nol sostenesse. (XI, LII)

                Allora Sciarra quell’esterrefatto, Come fosse un bambin, alza da terra Ed a traverso del cavallo a un tratto Ferocemente lo distende e serra: Né più mortale un fulmine e più ratto Dall’urto delle nubi si disserra, Di quello ch’egli, standogli di sopra, Metta a compìre la terribil opra. (XI, LIII)

Ed ecco la terribile descrizione della vendetta, descritta nei particolari, il prigioniero viene issato sopra un albero e viene bruciato vivo:

                Sei d’infra quelli d’un’erculea possa Obbedïenti gli vennero presso, Né da’ suoi labbri la parola è mossa Che compita può dirsi a un punto stesso. Un d’infra loro al vecchio pin s’addossa; Sulle spalle di lui l’altro s’è messo, E via via di tal modo insino al sesto Disponesi a un momento tutto il resto. (XI, LIX)

                Poi che l’ultimo giunse ove quel netto Tronco s’informa e i primi rami stende, Cavalcioni colà si tiene stretto Ed ai comandi del suo duca attende. Questi abbrancato alla metà del petto L’uomo, che innanzi resupin gli pende, Tanto il tien sollevato che con franca Mano un bandito pe’ capei lo abbranca. (XI, LX)

                Così dall’un passato all’altro in braccio Al supremo egli venne che si piega Ad afferrar la vittima, e d’un laccio Contro del pino l’assicura e lega: Dato in tal modo a lor bisogna spaccio E sordi al lamentar di lui che prega, Discendono i banditi e a mano a mano Si riducon dall’arbore lontano. (XI, LXI)

                Intanto Sciarra molti avea reciso Rami stillanti di resina fresca, E lor dà foco, ond’essi all’improvviso Tutti ne divampàr qual fracid’esca. Né dubbio è lungamente od indeciso A che partito il suo voler rïesca, Ché i suoi compagni appena usciti ei scòrse Fuor dell’ermo boschetto, entro vi corse. (XI, LXII)

                Colla persona tutta curva e bassa Ad infernal galoppo egli si sbranca E le ardenti resine agita e squassa Con urla di trionfo a dritta e a manca: Una striscia di fiamme, ovunque passa, Gli s’alza dietro e il vento le rinfranca, Così che dentro e d’ogn’intorno il loco Immagin dà di un’ocëan di foco. (XI, LXIII)

                Da prima un fumo sul pineto accenso Allargandosi ondeggia e in alto ascende E in mezzo un nugol cinericcio e denso Il tronco e la sua vittima comprende: E questa un grido manda, un grido immenso Di paura e dolor che l’aria fende, E le mani ed i pié liberi scuote Tal che all’aure un mulin volge le ruote. (XI, LIV)

                Intanto come serpe a mille code Turbinando la fiamma avida e rossa Ora par che in sottil lingua si snode, Or che si spanda dilatata e grossa. Un sordo crepitio, un mugghio s’ode Romoreggiar per l’arïa commossa, Mentre dal vento cacciato d’intorno Il fumo oscura, come nube, il giorno. (XI, LXV)

                Ma quando dal di sotto un calor grande Invade il vecchio pino, ecco che ratto Pel vasto ombrello un incendio si spande Onde ne avvampa tutto quanto affatto: E qual vulcano che dal grembo mande Fulmini, pietre e zolfo liquefatto, Tal piovon di lassuso a mille a mille Ardenti rami e ceneri e scintille. (XI, LXVI)

                Di tal maniera quella fiamma ingorda, Colà dove il meschino in ceppi giace Arse ad un punto e consumò la corda Ond’ei sciolto piombò nella fornace. Un urlo disperato il cielo assorda, Poi tutto quanto come prima tace, Ed appena qua e là pel bosco fuma, Qualche tizzon che in breve si consuma. (XI, LXVII)

Dopo tanto complesse e dolorose vicissitudini della sua vita, dalla giovinezza a Sorrento alla quiete del monastero di Sant’Onofrio a Roma dove viene amorevolmente accudito dai frati, con l’affetto dell’amico Aldobrandino, la morte per il poeta, pacificato con se stesso, con il mondo e con Dio, giunge serena:

                Così la cameretta ove giacea Nell’ultimo travaglio il moribondo, Non più misera e angusta gli parea Ma bella e spazïosa oltre del mondo. Intanto il semichiuso occhio si bea In mezzo un trasparente äer giocondo, E s’accostuma vigoroso e pronto Al sole eterno che non ha tramonto. (XII, XLII)

                Così alfin, o Torquato, a miglior vita Venir potesti dalle angoscie umane, Tranquillo nella gioia alta, infinita Che non conosce sera, né domane. Dal suo lungo martirio è al ciel fuggita L’anima tua immortale e a noi rimane Di te l’esempio ed il tuo nome bello Che non teme nemici oltre all’avello. (XII, LXIV)

                E parleran delle patite prove Per molti anni le genti e sempre fia La tua memoria benedetta, dove Che spira gentilezza e cortesia: Per che sin che su noi dal cielo piove Questo sorriso di melanconia, Ogni vergin pietosa, ogni bel core Co’ versi tuoi s’intenderà d’amore. (XII, LXV)

Conclusioni

Questo poema è stato giudicato negativamente dalla critica come un ‘fatto di costume‘, un ‘romanzo d’amore’ in cui ‘il protagonista perde i suoi connotati storici per diventare l’amante nobile e sventurato, il genio perseguitato’ (4), ma questa critica non tiene conto che il poema affronta molti fatti reali della biografia dello sfortunato poeta, seppure narrati poeticamente e con un di più di pathos in relazione ai suoi amori contrastati, e permette di avvicinarglisi con la guida di chi gli dedicò molti anni e ne scrisse con sobrietà e partecipazione; questi furono anche i princìpi guida del Cabianca uomo, che di sé scrive: “Poi ch’io più non sia, di me si parli e scriva: – Fu mite, onesto; amò la patria e i suoi –“.

1) Di Cabianca prosatore va ricordato il Tonesio, romanzo in cui si ritrae il vivere della scolaresca di Padova nel secolo decimosettimo.

2) Giacomo Zanella – Commemorazione di Jacopo cabianca (1809-1878) Adunanza ordinaria del giorno 28 luglio 1878 – Accademia Olimpica. Il testo a stampa originale ha per titolo: Commemorazione del membro eff. Jacopo Cabianca. Letta dal m.e. Giacomo Zanella. Jacopo Cabianca: corrispondente dal 23/4/1865; effettivo dall’11/4/1875 (Gullino, p. 379).

3) Ancora dalla Commemorazione in nota 2. I due poemi: J. Cabianca, Torquato Tasso. Canti tre, Milano, Santo Bravetta, 1836; J. Cabianca, Torquato Tasso. Canti dodici, Venezia, Tipografia del commercio, 1858.

4) Benito Recchilongo – Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 15 (1972)

Nota conclusiva: I versi citati sono tratti da Il Torquato Tasso. Canti dodici di Jacopo Cabianca, Venezia, Tipografia del Commercio, 1858 in https://play.google.com/books/reader?id=17tKAAAAcAAJ&hl=it&printsec=frontcover&pg=GBS.PA43

Alessandro Cabianca

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