Un piccolo monastero con una grande storia: Santa Croce di Campese

Abstract

L’eccezionale importanza storica di questo monastero, di cui oggi conserviamo scarse tracce e anche minore memoria, sta nell’essere stato scelto da Pons de Mélgueil, italianizzato in Ponzio di Mélgueil, abate del potentissimo monastero di Cluny, uno dei principali centri di diffusione del monachesimo occidentale, come sua sede, dopo essere stato destituito dal Papa. Le vicende del monastero, che si trova in provincia di Vicenza ma nella diocesi di Padova, si intrecciano con la storia personale del suo fondatore, prima scomunicato e poi riabilitato, e con le lotte per il potere tra papato e impero.

Descrizione del monastero dal suo massimo splendore allo stato attuale

Il monastero come si presenta attualmente

La situazione attuale del monastero di Santa Croce è quella che rimane dopo gli interventi avvenuti nel corso dei secoli XV, XVI, XIX, con molte manomissioni operate nell’ultimo periodo, soprattutto con lo smembramento del grande brolo per fare posto a centri sportivi e ad altre strutture. Abbiamo poche notizie su come si presentava fino alla visita del vescovo Barozzi avvenuta nel 1488 formalizzata in questo verbale:

“Quello stesso giorno il vescovo, traversata a guado la Brenta, visitò il monastero di Santa Croce di Campese […] il luogo è ampio con molti e grandi edifici e (un tempo) vi abitavano molti monaci. La chiesa ha tre absidi (cubas) rivolte ad oriente e ne aveva altre due: una rivolta a mezzodì, l’altra a settentrione, di modo che l’edificio aveva in sé una certa qual forma di croce (ita ut quandam formam crucis cum se feret edificatio). Queste due absidi (cube) sono state demolite e le pareti, dove c’era l’ingresso alle absidi, sono state murate. […] La navata è lunga e grande, ma aperta ai venti e i numerosi colombi che nidificano sul tetto coprono il pavimento di escrementi e piume. Ci sono tre altari nelle tre absidi, tutti consacrati; presso la chiesa c’è un oratorio (sacellum) con un altare consacrato, abbastanza ampio, pavimentato, dove i monaci celebrano l’ufficio divino. Vi è un giardino recintato da mura esteso più o meno per cinque jugeri, un orto, un altro giardino, cortili. Vi è poi un chiostro con il refettorio, la cella vinaria, il granaio, la cucina, poi la foresteria e il dormitorio…”.

Facciata attuale della chiesa di Santa Croce

Mi sembra che non ci sia nulla da aggiungere a quanto riferito nel verbale della visita del vescovo Barozzi perché è descritto molto bene come si presentava la chiesa in quel momento, con qualche cenno anche all’area circostante.
Durante i recenti lavori di restauro della navata della chiesa furono tolti strati di intonaco dalle pareti e si vide che sulla parete est originariamente si aprivano tre grandi archi: al centro il grande arco trionfale e ai lati altri due che davano al transetto, ora non più esistente.
Due porte su altre pareti davano: una direttamente al chiostro, l’altra al battistero, mentre la facciata presentava una porta, il rosone e due finestre.

La fondazione ad opera di Pons de Mélgueil (Ponzio), già abate di Cluny

Monastero di Santa Croce

Veramente singolare, per non dire rocambolesca, è la vicenda della fondazione del monastero di Santa Croce a Campese, avvenuta nel 1124 ad opera di Pons de Mélgueil, italianizzato in Ponzio di Mélgueil, un monaco già giovane e potente abate di Cluny, che però nell’esercizio della sua funzione aveva commesso troppi errori, tra gli altri essersi proposto candidato al soglio pontificio contro Guido da Vienne, eletto poi papa con il nome di Callisto II, e ritenuto oltretutto da alcuni di tendenze scismatiche. Lo stesso pontefice comunque durante la preparazione del concordato di Worms lo fece cardinale, per poi poco tempo dopo destituirlo dal suo prestigioso incarico a Cluny, secondo alcuni mentre si trovava pellegrino in Terrasanta, secondo altri durante un’udienza privata a Roma. È da tenere presente che proprio papa Callisto II con il concordato di Worms prima e con il concilio Lateranense primo del 1122 era riuscito a porre fine all’abitudine secolare che permetteva di conferire i benefici ecclesiastici da parte dei laici, ristabilendo il principio secondo cui soltanto la Chiesa è la depositaria dell’autorità spirituale: quindi ad essa spettavano le nomine episcopali ed abbaziali.

Le peripezie del suo fondatore

Tornato in Europa con alcuni monaci nella primavera del 1123 Ponzio si fermò a Campese, sopra Bassano, in un luogo strategico per il collegamento con i valichi alpini per raggiungere i territori del nord più direttamente sottoposti all’autorità imperiale, permettendo inoltre un facile controllo della sponda destra del canale di Brenta. Qui egli trovò una facile sponda alle sue iniziative nelle famiglie più in vista del territorio quali i Da Romano, i Desmassaterra e altre che lo assecondarono nel suo sogno di fondare un monastero, donandogli il terreno dopo averlo acquisito tramite permute dal vescovo di Padova cui legittimamente era sottoposto, mentre una parte dipendeva dal monastero di San Floriano, mediante l’intervento risolutivo di Tiso di Camposampiero. Di questa postazione l’intraprendente monaco voleva fare il punto di partenza per riconquistare quel ruolo che gli era stato tolto all’abbazia di Cluny, ma ancora una volta sulla sua strada trovò papa Callisto che nuovamente glielo negò perché al timone di quella abbazia era autorevolmente e legittimamente insediato Pierre de Montboissier, Pietro il Venerabile, un personaggio molto influente nelle vicende ecclesiastiche che la Chiesa stessa dopo la morte per le sue doti venererà come beato.

 

Ponzio riconosciuto abate di Campese

Oratorio di San Martino a Campese

Ponzio comunque non si perse d’animo e si rivolse direttamente all’imperatore Enrico V che lo riconobbe come abate del monastero di Cluny, circostanza che indusse papa Onorio II ad accettare che i monaci dissenzienti dalla linea ufficiale cluniacense potessero unirsi a Ponzio ma non a Cluny poiché di quella congregazione egli riconosceva come abate soltanto Pietro il Venerabile. Non pochi religiosi comunque finirono per ritrovarsi a Campese attorno alla figura di Ponzio che accettava di non essere più considerato dal papa come abate di Cluny ma a compensazione proponeva di essere considerato tale del monastero di Campese che egli aveva rinominato Campo di Sion e chiedeva al sommo pontefice che non ci fossero condanne, che non fossero considerati scismatici lui e i suoi seguaci riuniti a Campese, ma che tutto si ricomponesse nell’unità di una Chiesa di cui Cristo è il capo. Campese per un certo periodo pertanto divenne un punto d’incontro di monaci dissidenti da monasteri dell’ordine cluniacense da tutta Europa e ciò aumentò la sua fama e quella dello stesso Ponzio che comunque era venerato quasi come un santo dai confratelli e dal popolo per la sua vita condotta nell’umiltà, nella penitenza, quasi da eremita, ma con capacità di incidere nella vita della gente con opere concrete, pregi che gli venivano riconosciuti dallo stesso segretario di Pietro il Venerabile. Il suo era un monachesimo che sembrava tornare all’ispirazione delle origini che si richiamava alla penitenza, in contrasto con quanto ormai stava avvenendo in diversi altri monasteri, dove si cercavano sempre più addentellati con chi poteva esercitare un’influenza nei confronti di personaggi che rivestivano un’autorità, fosse anche di carattere religioso, tra questi in primis Cluny.

Ponzio torna a Cluny e viene scomunicato

Forse nel suo ardore di un integralismo concettivo Ponzio passò il segno e disattendendo i consigli dei suoi protettori, i Da Romano, i Camposampiero, i da Baone, volle tornare a Cluny nel tentativo di riconquistarla alla sua causa, forse ritenendo che il monachesimo instaurato a Santa Croce l’avesse superata; qui giunto i monaci che ancora si riconoscevano in lui e nel suo fascino approfittando dell’assenza dell’abate titolare, con l’aiuto di soldati e di alcuni popolani lo reintegrarono nella sua carica di abate forse contro la sua stessa volontà. Venuto a conoscenza dell’accaduto l’arcivescovo di Lione lo scomunicò e papa Onorio II lo convocò a Roma probabilmente per sottoporlo a processo, ma durante il soggiorno romano Ponzio si ammalò e in breve andò incontro alla morte.

Donazioni, decime, controversie

Stemma del Monastero di Santa Croce

Già nel 1125 ci furono donazioni al cenobio da parte dei Da Romano e di Gualberto di Campignaga, donazioni che continuarono anche negli anni successivi da parte di altri signori. Intanto nel 1127   Santa Croce fu posta sotto la giurisdizione dell’abbazia di San Benedetto in Polirone, o San Benedetto Po, alla quale già dal 1124 era stata unita anche l’abbazia di Praglia fondata probabilmente da Umberto Maltraversi mel 1117. San benedetto Po già decenni prima era stata aggregata a Cluny, per cui l’importanza del monastero di Campese aumentava considerevolmente e le donazioni si fecero sempre più impegnative e arrivavano addirittura dai signori di Caldonazzo, con il problema non indifferente però di come amministrare una così considerevole quantità di beni. I possedimenti consistevano in terreni boschivi, arativi con case, fattorie, canali, molini un po’ ovunque, con contratti in cui il monastero concedeva il diritto perpetuo dell’utilizzo del fondo al concessionario, stante l’obbligo di migliorarlo e di pagare un canone annuale. L’investitura avveniva nei locali del monastero e l’atto era steso da un notaio alla presenza del priore e di alcuni confratelli. I concessionari a loro volta potevano cedere le concessioni, purché con atti formali regolari. I primi contratti riguardarono possedimenti a Borso del Grappa e a Campolongo. Intanto la comunità religiosa che si era insediata a Campese poteva contare sulla protezione del papa e dello stesso imperatore che gliel’avevano accordata, insieme ai diritti di decima sui territori di pertinenza, pur manifestandosi qualche contesa con la pieve di Santa Giustina di Solagna sia per le decime che per la cura d’anime. Su pressione dei monaci di Santa Croce, in contrapposizione alla pieve di Solagna, venne elevato a pieve l’oratorio di San Martino di Campese. Data la vastità del territorio a poco a poco sorsero diverse altre cappelle dipendenti da Campese, come a Foza, a Oliero, a Sandono. Con la fine dei da Romano anche Campese entrò in crisi, soprattutto a causa dei postumi delle guerre che questi avevano scatenato e che avevano messo in difficoltà molti coloni, i quali non riuscivano più a pagare quanto convenuto; inoltre quelli che erano stati privati dei loro averi da parte dei da Romano pretendevano di ritornarne in possesso; Campese comunque riuscì a conservare i suoi possedimenti. Nel XVI secolo molte realtà conventuali si trovarono sull’orlo della catastrofe a causa delle continue lotte tra Verona e Padova e Santa Croce si vide occupata da soldataglie di un certo Pederobba che si era installato a guardia degli interessi scaligeri nel territorio. Dopo una lunga contesa giuridica – non è noto come sia andata realmente a finire – dalle circostanze intervenute sembra che l’esito sia stato favorevole al convento che poté tornare in possesso dei beni, anche se ormai molto compromessi. Siamo agli inizi del XV secolo e Campese stava cambiando volto, oltre che riprendendo il suo nome d’origine, non più Campo di Sion, ma nuovamente Campese.

Le attività e le coltivazioni

Busto di Teofilo Folengo a Santa Croce

A ridosso del mons Sanctae Crucis, monte di Santa Croce, le antiche distese prative erano coltivate a frumento, miglio, ortaggi, viti, olivi, alberi da frutto con le strade che si intersecavano e univano il bosco alle contrade per poi giungere fino al Brenta. Oltre alle case dei contadini funzionavano molini, piccoli opifici, una sega, una fornace, mentre Oliero e Valstagna si staccavano e tentavano una loro via. La vita religiosa in questo momento si presentava gravemente compromessa e la stessa abbazia di Polirone veniva annessa alla congregazione di Santa Giustina che in quel momento era guidata da un grande abate, Ludovico Barbo. Questa unione portò ad una ripresa e ad un deciso miglioramento sia dal punto di vista monastico che culturale ed economico anche per il monastero di Santa Croce che decideva di seguire le disposizioni dell’Istituzione di riferimento. Ci furono comunque delle onerose contese per l’uso dei boschi con alcuni confinanti e in seguito la situazione tornò a farsi meno florida, lo stesso priore venne posto sotto processo, da cui però uscì completamente riabilitato. Siamo alla guerra di Cambrai che direttamente o indirettamente toccò molti territori italiani e, a seguire, alla guerra contro i Turchi a causa della quale la Serenissima impose ulteriori tasse, per cui i capifamiglia del comune di Campese, con in testa il sindaco, si riunirono per chiedere che la Comunità fosse esentata da tali gravami e potesse godere dei privilegi pregressi connessi al suo legame con il convento.

Teofilo Folengo esule a Campese

Un’opera di Teofilo Folengo

Due importanti eventi in quel periodo si stavano verificando, il concilio di Trento e l’arrivo di Teofilo Folengo, geniale poeta macaronico, noto anche con lo pseudonimo di “Merlin Cocai”, probabilmente lì confinato in una specie di esilio per le sue idee, ma rimastovi molto poco perché ormai alla fine della sua esistenza; dopo di lui giunsero altri monaci ritenuti troppo spinti nel loro sogno di riformare la vita monastica, con una vita più aderente ai dettami evangelici, lontana da sfarzi e magnificenze come troppo speso invece allora era in voga anche all’interno della Chiesa. Dopo il concilio di Trento alcune cose cominciarono a cambiare, si faceva più intensa l’opera caritativa e inoltre si dava una ulteriore spinta alle attività che si svolgevano nelle contrade, soprattutto per quanto riguarda i molini.

Il declino del monastero

Interno della chiesa

Il ‘600 iniziava con un momento di grave crisi economica e per un certo periodo il monastero fu sottoposto a ipoteca, la stessa abbazia di Polirone da cui, come sappiamo, dipendeva, stava attraversando un periodo molto difficile e tra le due istituzioni ci furono anche delle tensioni. Si acuirono le controversie con il comune di Campese per il pagamento dei tributi e per l’uso dei terreni, specie boschivi, oltre che per il possesso dell’oratorio di San Martino. Ancora peggio dal punto di vista economico si presentava il ‘700, il convento cercava di venirne fuori estendendo le decime sui terreni messi a nuova cultura suscitando la ribellione della gente, appoggiata ancora una volta dal Comune, tuttavia Venezia, chiamata in causa per dirimere la vertenza condannava i coloni a pagare il dovuto mentre il Comune doveva ritirare il patrocinio che aveva loro accordato, e così si arrivò ad una intesa anche se accettata di malavoglia dal paese. Nei terreni poi si estendeva la coltivazione del tabacco con qualche episodio di contrabbando che portò anche a delitti. Con queste vicende il monastero si avviava sulla via del tramonto che, come per tanti altri arrivò con le disposizioni napoleoniche, e con la morte dell’ultimo monaco benedettino di Santa Croce avvenuta a Campese il 27 gennaio 1812 la sua storia si concludeva definitivamente.

Da “Atlante delle parrocchie” – Diocesi di Padova

Nella parete destra della chiesa della Santa Croce di Campese è visibile un affresco di ambito veneto raffigurante Gesù crocifisso con donatore (foto nella pagina precedente), probabilmente un ecclesiastico o membro di qualche confraternita. Nell’iscrizione posta nella fascia inferiore del dipinto è citato l’anno di esecuzione, il 1517, e presumibilmente il nome del defunto in memoria del quale fu eseguito il dipinto murale: Gerolamo, figlio di Nicolò Favero. Sempre del Cinquecento è la pala d’altare con la Madonna con Gesù Bambino e santi attribuita a Jacopo da Ponte detto il Bassano. Assistono in contemplazione della Vergine, avvolta da schiere di angeli in una mandorla di luce, santa Scolastica, monaca benedettina e badessa, il fratello san Benedetto da Norcia, san Rocco, un santo vescovo con pastorale, santa Caterina d’Alessandria e san Giuliano l’ospitaliere individuato per la presenza al suo fianco di un cervo. Giuliano era, infatti, un nobiluomo amante della caccia che ebbe la disgrazia di uccidere, per errore, i propri genitori. Per espiare il delitto, dedicò la sua vita ad assistere i pellegrini e i viandanti aprendo un ospizio al guado di un fiume. Una notte aiutò un lebbroso: era Gesù che aveva perdonato il suo peccato. La chiesa conserva anche una preziosa Pietà in legno intagliato e dipinto risalente alla prima metà del Settecento la cui committenza si deve alla confraternita del Rosario. Nella parrocchiale è inoltre sepolto un personaggio “eccellente” della letteratura cinquecentesca: sula parete di fondo della navata sinistra si apre il sacello, con relativo busto marmoreo scolpito da Giovanni Maria Gai nel 1740, del poeta benedettino Teofilo Folengo, noto con lo pseudonimo di Merlin Cocai. Nato da nobile famiglia mantovana nel 1491, qui morì nel 1544. Nel presbiterio una riproduzione fotografica della Pietà ricorda l’originale realizzato da Costantino Pasqualotto nel 1735 e attualmente conservato nel museo civico di Bassano.

Federico Cabianca

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