Il Refettorio Monastico di Praglia

Abstract

«Il cibo è cultura», soleva dire l’indimenticabile Philippe Daverio. La verità di quest’asserzione trova una felice dimostrazione quando varchiamo la porta del solenne refettorio monastico di Praglia.

Il cibo è cultura

Poggiato a est su otto imponenti colonne quattrocentesche, il refettorio offre subito allo sguardo stupito del visitatore ben nove mense in noce sui cui dossali dei singoli posti troviamo degli emblemi, scolpiti in legno, nei quali emergono dei motti esplicativi sapienziali, in latino, ideati da Girolamo de Rosa. L’opera, voluta dall’abate Alberto de Angelis, fu compiuta tra il 1726 e il 1730. Alle pareti pendono ben nove quadri a tempera di Gianbattista Zelotti (1526-1578), che, con Paolo Veronese (1528-1588), aveva frequentato la bottega di Antonio Badile (1518 circa-1560).

 

Il Crocifisso di Bartolomeo Montagna

Un Crocifisso a fresco, di Bartolomeo Montagna (1449-1523), adorna invece il posto sovrastante alla sede abbaziale. L’affresco spicca per la luminosità. Il segreto è presto detto, Montagna fu discepolo di Giovanni Bellini (1430-1516), uno dei grandi interpreti della pittura tonale. A detta dell’illustre critico d’arte Bernard Berenson (1865-1959) solo i veneziani hanno saputo catturare la luce, con le sue magie cromatiche, e trasportarla sulle tele e sugli affreschi. I toscani non andarono oltre Pietro della Francesca (1412-1492). Il nostro Pietro Selvatico (1803-1880) l’ha definito, forse con una punta di orgoglio veneto-padovano, «uno dei più belli che l’arte facesse mai». Giudizio confermato dallo scrittore Antonio Fogazzaro (1842-1911), il quale sosteneva che questo Crocifisso fosse nientemeno che il capolavoro stesso del Montagna. Sopra il dipinto si trova l’eterno Padre che proclama: Ecce testem populis dedi eum, ducem ac praeceptorem gentibus – «Ecco, l’ho costituito testimonio fra i popoli, principe e sovrano fra le nazioni» (Isaia 55,4). Ma perché un Crocifisso e non un’ultima Cena, come troviamo generalmente nei refettori monastici? Bisogna sapere che la parete ha due grandi finestroni ai lati. Si doveva perciò sfruttare, dal punto di vista compositivo, la verticalità (cui si presta bene una crocifissione) e non l’orizzontalità (per non fare una Cena senza estensione e profondità). Bisogna sapere che il Crocifisso ha attraversato varie vicissitudini. Dapprima fu coperto con la calce, poi scoperto e restaurato nel 1700. Dopo il 1766, a causa delle condizioni statiche dell’edificio, fu staccato a pezzi e trasportato nella Biblioteca attuale, detta Sala del fuoco, per il grande camino, per poi essere nuovamente staccato e rimesso nel refettorio dopo i necessari lavori che assicurarono la statica dell’edificio. Siamo ai primi del Novecento. Oggi, senza esagerazione, vista la storia sofferta, possiamo dire di godere di un miracolo visivo.

Il pulpito rinascimentale e il pavimento

Nel nostro refettorio spicca inoltre un elegante pulpito rinascimentale sulla parete ovest che serviva per il lettore. Secondo l’antica prassi monastica nel refettorio, durante i pasti, vige il silenzio. Il lettore accompagnava quindi la mensa con letture tratte da libri formativi, teologici, storici o biografici. L’antica consuetudine continua ancora oggi nell’abbazia benedettina, salvo una piccola eccezione. La domenica sera, in segno festivo, si ascolta musica classica o operistica. Di notevole valore il pavimento, un classico terrazzo veneziano o Palladiana con marmi che venivano persino dal nord Africa. Sappiamo come Venezia, in particolare tra il 1400/1500 era tra le più ricche e importanti città d’Europa. Questi lussi erano perciò possibili e praticabili anche nelle zone che erano state occupate dalla Serenissima. Tra queste, appunto, la nostra Padova, che nel 1400 perse la libertà, goduta con i Carraresi nel Trecento, a causa delle mire veneziane.

Il pasto nella tradizione monastica e benedettina

Il refettorio induce molte riflessioni riguardo alla concezione del pasto secondo la tradizione monastica e benedettina. Per i nostri antichi, assumere il cibo non era certo riempire un sacco vuoto ma aveva toni sacrali. Ne fa fede la disposizione dei tavoli, i quadri con soggetti religiosi, il pulpito per la lettura, la preghiera cantata prima e dopo la refezione. Il pane della mensa era il pane condiviso, il frutto del lavoro, l’espressione della koinonia fraterna che ivi si radunava. Sono valori che permangono pur nel variare dei tempi e delle culture e che colpiscono anche il visitatore più distratto. Un’ultima nota. L’ascesi monastica, come ci insegna la storia, non ha mai rinunciato a una raffinata estetica al punto che gli edifici monastici lasciano ancora oggi sbalorditi per la ricchezza e il valore di cui sono custodi secolari. Non era una ricerca fine a se stessa o un’esibizione di potere ma rispondeva a un bisogno primario dell’animo umano, quello della bellezza. E sarà proprio uno scrittore russo come Dostoevskij, né l’Idiota, a ricordarci che: «La bellezza salverà il mondo» (Mir spasët krasotà), dove il termine mir, tradotto con «mondo» può significare anche «pace». La bellezza salverà il mondo e il mondo diventerà pace. Niente di più attuale.

Dossale di un posto singolo di una delle nove mense con emblema e iscrizione “Fortitudo”

Nota:
Le fotografie sono di Antonio Fiorito

Sandro Carotta

 

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