Giovanni Morbin, intervista di Gianni Cabianca

Abstract

Chi fosse convinto che l’arte è morta e defunta dovrebbe conoscere Giovanni Morbin, un artista di Cornedo Vicentino che si è costruito un atelier nella campagna cornedese dove attualmente vive e lavora le rare volte che torna per brevi soste dai suoi continui spostamenti. Lì sono andato ad incontrarlo per avere dalla sua voce le novità che lo riguardano.

Giovanni Morbin, “La quarta settimana”, 2012

Premessa

Ho avuto il privilegio di conoscerlo da ragazzo perché frequentavamo gli stessi ambienti, poi l’ho avuto per collega nella scuola, quindi ho continuato a seguire da lontano gli sviluppi delle sue ricerche. Dopo l’accademia delle belle arti, ha insegnato alle scuole medie, quindi al liceo artistico, per approdare infine all’accademia delle belle arti dove ha insegnato una decina d’anni fino a pochi mesi fa, quando è andato in pensione. In pensione per un modo di dire, perché lavora più di prima, anche se il suo non so se lo si possa definire lavoro. Il lavoro ha insito qualcosa di alienante, mentre di quello che lui fa si può dire di tutto, tranne che sia alienante.

L’intervista

Comincio col chiedergli in cosa sia impegnato di questi tempi ed egli mi risponde che ha tre mostre personali in contemporanea, una a Venezia, una a Vienna e una a Lubiana. Ovviamente le deve curare tutte, ma per questo ha dei collaboratori. Nel frattempo si esibisce in performance e in interventi dove viene richiesto. A fine gennaio aprirà un’altra mostra a Bologna, per non annoiarsi. Come avrete capito si tratta di un tipo piuttosto vulcanico e anche nel dialogo non è semplicissimo stargli dietro. Bisogna cercare di seguire per approssimazione i concetti che espone. In effetti è all’arte concettuale che maggiormente si rifà, dopo che la funzione figurativa e rappresentativa dell’arte sono state soppiantate da altri mezzi e strumenti (fotografia, cinema, media).

Attirato da un’immagine fotografica in cui lui appare con una mano murata sul lato di un edificio, gli chiedo una spiegazione.

MORBIN: “Siamo a Lubiana nei primi anni novanta, subito dopo la caduta del comunismo; si tratta delle ex prigioni militari che volevano demolire per farne un complesso commerciale. Un gruppo di intellettuali le ha occupate per impedirlo e mi ha invitato a presentare un progetto. L’idea che avevamo era quella di trasformare un luogo di repressione in un luogo di libertà e di cultura. Perciò murando la mano all’edificio si finiva per costituire un elemento unico fra l’appendice mobile (l’uomo) e l’appendice fissa (l’edificio). Sono rimasto così per otto ore, tempo antropologico di misura (8 ore di lavoro, 8 ore di sonno, 8 ore di svago), inibendo altresì lo strumento del lavoro per antonomasia, la mano”.

DOMANDA: Le performance sono interventi dal vivo, quasi estemporanei; è sempre scontato il successo o quantomeno la fattibilità della rappresentazione?

M.: “Non tutte le performance hanno un esito positivo. A campo Santa Margherita, il giorno dell’inaugurazione della mostra, avevo programmato la produzione e la distribuzione gratuita di pagnotte con la forma del mio volto. L’amministrazione comunale non ha dato l’autorizzazione all’evento. Ad ogni modo anche l’insuccesso è positivo in quanto rappresentazione del reale.

Giovanni Morbin, La quarta settimana, 2012 – Produzione del pane

D.: Bella trovata, dal sapore quasi cannibalesco quella di mangiarsi a casa una pagnotta con la forma del tuo volto, ma non è che il pane assorbisse anche qualcosa più della tua forma?

M.: Per stare a questo tema, nella mostra ho esposto delle tele fatte strappando l’intonaco bianco da alcuni ambienti che hanno avuto a che fare con eventi culturali. Quell’intonaco si è impregnato, ha assorbito quegli eventi e ne rilascia l’essenza come in un fenomeno omeopatico, li restituisce agli altri ambienti e alle persone che li vogliono vedere.

D.: Hai fatto altre operazioni di questo tipo?

M.: Nel 2014 sono stato chiamato in Svizzera alla Casa Rosa che è stata l’abitazione e l’archivio di Harald Szeemann, il critico d’arte. Lo stato svizzero miopisticamente non aveva voluto il suo archivio e il museo Paul Ghetti di New York non ha visto l’ora di accaparrarselo e portarselo oltre oceano. Io sono salito lì con tre aspirapolveri e con quelli ho raccolto tutto quanto era rimasto, quello che gli altri non avevano voluto, dopodiché ho lasciato in un angolo un aspirapolvere esposto, come se la donna delle pulizie se lo fosse dimenticato. Ovviamente ci sono stati diversi fraintendimenti nei confronti di quest’opera che molti non hanno riconosciuto come tale.

Giovanni Morbin, After Szeemann, 2014, aspirapolvere Vorwerk Kobold 120,
polvere, 75 x 35 x 75 cm, ph. Valentina Cavion, collezione AGI, Verona

D.: Che altre opere sono esposte nella mostra di Venezia?

M.: C’è una serie di opere denominate “Il saluto” il cui archetipo è un libro tagliato in due e il taglio serve a definire un volume d’aria che si genera nel saluto fascista, e serve anche a delimitare un confine fra un prima e un dopo. Questo volume d’aria ha la forma di un prisma e l’ho riprodotto con una scultura alta più di due metri, in legno, come fosse un mobile fatto di materiale povero, quasi instabile, una specie di baracca che però ha uno spigolo metallico taglientissimo, perciò pericoloso che incombe come una spada di Damocle sui visitatori. Il saluto dovrebbe essere una manifestazione molto personale, naturale, invece ogni ideologia ha sfornato un proprio saluto iconico per uniformare e amalgamare i propri adepti.

D.: Perciò, in questo caso, la funzione dell’artista e dell’intellettuale è quella di andare a fondo, di indagare nella realtà e di denunciare.

M.: Certo, l’artista ha strumenti che la persona comune non ha e perciò ha il dovere di mettere in evidenza quello che non si vede a occhio nudo. Ci sono temi dai quali nessuno può esimersi. La pena di morte, per fare un esempio. L’artista, su questi argomenti si deve esporre pubblicamente.

D.: Parlami un po’ della mostra di Vienna.

M.: Il tema è quello dell’Ozionismo. Quest’opera che ti mostro si intitola ‘Manomissione’. Manomettere nell’antica Grecia voleva dire dare la libertà allo schiavo, ma vuole anche dire mettere la mano, oppure liberare la mano dalla sua funzione. Questa scultura rappresenta lo spazio che si crea fra due mani che non fanno niente. È il vuoto che sancisce la distanza fra due mani inoperose. Il materiale è cemento osseo prodotto da una multinazionale che ha una succursale a Sommacampagna nel veronese e con questo materiale si fanno le protesi ossee. In questa scultura ci sono 15.000 euro di materiale, per esempio. Ho voluto qui rappresentare tutti gli archetipi della creatività, ma anche i luoghi comuni: ‘mettere mano’ ‘avere una bella mano’ ‘toccare con mano’. In tutta la serie dell’Ozionismo c’è la presunzione di creare opere senza usare le mani. Nell’opera intitolata ‘Man mano’ ho prodotto 49 dischetti di terracotta unendo le due mani e ogni dischetto riproduce il palmo di entrambe le mani. Sono gli stampi delle mani che senza operare generano spazio. Per rimarcare il valore dell’inoperosità ho acquistato una pagina del ‘Gazzettino’ per lasciarla bianca. Nella strabocchevole abbondanza di messaggi e di segni, ho voluto interrompere il flusso contagioso, sottrarre un elemento. Sempre su questo tema ho fatto una performance prendendo spunto dai lavori di Germano Olivotto, artista che viveva a Padova, il quale negli anni ’70 aveva esposto un neon acceso su un albero al quale aveva sottratto un ramo. Una cosa che apparentemente non aveva senso. I suoi lavori si chiamavano ‘Sostituzioni’: tagliava un ramo e vi piazzava un neon. Ho voluto ricreare la stranezza ponendomi su un albero senza fare niente.

Giovanni Morbin, Manomissione (mechanic), 2023

D.: Se tutto quello che facciamo è in funzione di qualcosa d’altro, quello che fai non è un tentativo di recupero del gioco, come elemento che non avendo altri fini, ha valore in sé? Non è il tentativo di recuperare l’azione fine a sé stessa?

M.: Certo. Ozium si contrappone a Negozium ed è una vera e propria azione per predisporre corpo e anima al pensiero. Gli antichi greci davano all’ozio un valore profondo, strutturale.

D.: Ma è stata soprattutto l’industrializzazione a stravolgere la concezione dell’azione umana, finalizzandola solo ad ottenere qualcosa d’altro.

M.: L’industrializzazione ha stravolto il significato di ozio e di azione e non a caso la poesia e la filosofia hanno subito in seguito una fase denigratoria e di marginalizzazione.

D.: Ma questo non dà anche dei vantaggi? Fuori dai vincoli del mercato e del contesto usuale, non si può usufruire di uno spazio di libertà altrimenti impensabile?

M.: Fino a un certo punto. Non serve a nessuno se si operasse fuori dalle scene. A un certo punto bisogna mettersi in gioco, perché in ogni caso si è destinati a lasciare un segno di qualche tipo. E allora meglio che sia un segno consapevole. Per quello sono tornato al mio paese, per risolvere qui queste contraddizioni. Una volta constatato che si sono persi i tempi dell’Ozium, della Poesia e della Filosofia ho pensato di costruire una “Macchina per parlare da solo”, una specie di imbuto a spirale fatta in modo che la parola esce dalla bocca e viene portata all’orecchio. Poi ho studiato uno “Strumento a perdifiato” che serve a rivolgersi a sé stessi, per prendere coscienza di sé.

Giovanni Morbin, Mano, 2002, sangue su carta cotone,
100 x 130 cm, ph. Andrea Rosset, courtesy dell’artista

D.: Ma tutto quello che tu fai, non rischia di annullarsi nello stereotipo che si ha dell’artista?

M.: Certo: se tu lavori in una galleria e sei un artista, ti trovi su un piedistallo che giustifica ogni stramberia. Se la stessa cosa la fai nella vita comune, sei un matto. Perciò la mia sfida è proprio quella di non presentare i miei interventi in ambito artistico, perché lì è tutto permesso, ma inserendoli nel quotidiano ribalto tutti i parametri e chi assiste rimane spiazzato e obbligato ad uno sforzo intellettuale che lo costringe a confrontarsi e a dilatare la propria coscienza.

Giovanni Morbin, Antimateria, 2008 – 51 x 87 x 52 cm

Bene, siamo arrivati ai saluti e anch’io spero che quanto ci siamo detti in questa chiacchierata possa portare l’attento lettore ad uno sforzo aggiuntivo rispetto ai normali parametri con cui normalmente si misura.

Gianni Cabianca

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