Sommario
Abstract
Nel corso dei secoli, che vanno dalla fine del Quattrocento al tardo Settecento, intensi e fruttuosi sono le relazioni intellettuali che intercorrono tra scrittori, poeti e umanisti “ciociari” – ovvero provenienti da centri più o meno grandi di quella zona del Lazio meridionale grosso modo identificabile con l’odierna provincia di Frosinone – con Padova, Venezia e altri centri della Repubblica Veneta. Cercherò di darne conto, nella maniera più esaustiva possibile, attraverso alcuni interventi.
Panorama di Pofi in un’immagine d’epoca
Gaetano Tizzone da Pofi e la situazione del teatro contemporaneo
Il Rinascimento teatrale nasce dal confronto con tre opere dell’antichità: la Poetica di Aristotele, l’Onomasticon di Polluce, e il De Architectura di Vitruvio. La commedia del Rinascimento, pur senza soppiantare le altre forme drammaturgiche, non si relaziona con esse, e piuttosto crea immediatamente un modello (che resterà invariato per secoli). Il “modello” (cinque atti in prosa, con un prologo e rispetto delle unità di tempo, di luogo e di azione) si fonda, ovviamente, sul preesistente canone della commedia greco-latina, ma arricchita dagli umori delle egloghe drammatiche e soprattutto del repertorio popolare. Non a caso, molti spunti verranno presi dal grande serbatoio di storie che è il Decameron di Giovanni Boccaccio.
Nel volgere di pochissimi anni arrivano sulle scene: l’anonimo Formicone – la primissima commedia italiana – rappresentata a Mantova nel 1503; la Cassaria di Ludovico Ariosto – primo testo drammatico costruito ad imitazione dei classici – va in scena nel 1508; ad Urbino, nel 1513, viene rappresentata la Calandria di Bernardo Dovizi da Bibbiena, una delle commedie più fortunate di tutto il Cinquecento; la Mandragola di Niccolò Machiavelli arriva sulla scena fiorentina nel 1525. Accanto alle nuove commedie in volgare, nel primo Cinquecento abbiamo dei testi comici in dialetto, massimo esempio dei quali sono le opere dell’attore e scrittore padovano Angelo Beolco detto Ruzante. Più indipendenti dal modello classico sono invece le commedie di Pietro Aretino, mentre un autentico capolavoro del tempo è l’anonima La Venexiana (1520).
Quanto alla tragedia, essa tocca allora in Italia uno dei suoi momenti più nobili ed alti, non salutato da clamori di pubblico e da successi fortunati, bensì consegnato alla pagina scritta, sulla quale confluisce l’eredità della cultura delle scuole gesuitiche, capace di rendere i moti dell’anima e le inquietudini del tempo. E per tutto il Cinquecento continuano le sacre rappresentazioni e nasce il genere dell’intermezzo, fatto soprattutto di musica e danza, che darà man mano vita all’opera lirica.
Il sistema sopra delineato riesce a coinvolgere autori e interpreti di ogni dove. Come dimostra il caso di Gaetano Tizzone, nativo di Pofi. In mancanza di dati certi, possiamo dire che egli ha vissuto tra la fine del Quattrocento e il primo trentennio del secolo successivo. Del padre, Carlo Clemente, l’Historia Verularum di Vittorio Giovardi ci dice che è «amico delle umane lettere e delle principali muse».
I dieci libri dell’architettura di M. Vitruvio tradotti e commentati da monsignor Barbaro,
con i disegni di Andrea Palladio, 1556
Le molteplici attività di Gaetano Tizzone: ambasciatore, commediografo e grammatico
Da Pofi viaggia a Napoli (tanto che nei Diari di Marino Sanudo viene chiamato “neapolitano”), dove è al servizio degli Acquaviva, svolgendo incarichi diplomatici per i Gonzaga, imparentati con quelli. Il suo nome è legato anche alla meritoria opera di mediazione tra Leone X e i Gonzaga, che favorisce la conclusione della guerra di Urbino nel 1517.
Spostatosi nel mantovano, il giovane Tizzone è vicino al vivace ambiente intellettuale della corte di Gazzuolo. Smessi intorno al 1523 gli impegni diplomatici, comincia, in quel di Venezia, a lavorare come emendatore ed editore di testi antichi. Il suo lavoro di studioso si svolge nell’arco di un quinquennio (tra il 1523 e il 1528), e frutta l’edizione di numerose e importanti opere, date poi alle stampe da attivissimi tipografi come Bernardino Vitale, e Jacobo e Girolamo Pentio.
Per esempio, lavora sugli scritti di poetica e su quelli minori di Boccaccio, confessando per il Filopono di aver avuto a disposizione proprio a Venezia «uno ottimo testo et antico tanto che creder si poté esser stato scritto in vita de l’autore». Probabilmente muore nel 1528 (o poco dopo), anno a partire dal quale non abbiamo più sue notizie – ultima sua fatica “ufficiale” è la stampa, nel 1528 appunto, della Teseide corretta e sistemata con estremo scrupolo filologico, ma anche con un occhio attento al gusto e alle cadenze linguistiche del proprio tempo per favorirne il successo commerciale ed ingraziarsi così l’opera degli editori/stampatori – mentre è intento a lavorare a una grammatica e a un dizionario.
Canaletto, Venezia, bacino di San Marco, 1738-1740
Nel 1531 il cugino Libero rivolge alla Serenissima la richiesta del privilegio (cioè l’antesignano del copyright) per la stampa di «alcune belle regole grammaticali volgari […] novamente composte da m. Tizzone Gaetano da Pofi suo cugino, cioè grammatica, declinatione di verbi, dittionario, rimario di tutte le rime et dittioni o vero vocaboli che Dante, Petrarcha e Boccaccio hanno usate».
Nella richiesta sono ricordati, tra gli scritti in attesa di stampa, «una arte poetica ed un volumetto di molti be’ modi di eloquentemente parlare e correttamente scrivere», e ancora «una bellissima comedia chiamata Gemursia». L’impegno è assolto solo in parte: nel 1539, a Napoli, viene stampato l’unico testo di Tizzone a noi pervenuto, cioè la Grammatica volgare, fondata sugli esempi dei grandi poeti del Duecento e Trecento.
Della commedia Gemursia, che Libero né pubblica né conserva, abbiamo notizia anche dalla biografia di Francesco De’ Nobili.
Francesco de’ Nobili detto Cherea, notissimo interprete della Gemursia a Venezia
È costui un attore lucchese divenuto celebre nel corso del secolo con il nome d’arte di Cherea, personaggio terenziano dell’Eunuchus che deve essere un tale pezzo forte del suo repertorio da assumerlo come pseudonimo, cosa che è piuttosto usuale al tempo (si pensi a Tommaso Inghirami che a Roma si fa chiamare Fedra, per aver interpretato quel ruolo nella messinscena dell’Hyppolitus di Seneca, sotto la direzione di Giovanni Sulpizio da Veroli, di cui parleremo prossimamente).
Cherea furoreggia nella prima metà del Cinquecento, ed ha l’indubbio merito di sdoganare anche in Venezia la pratica della messinscena di volgarizzamenti di opere latine, come è avvenuto in altre città italiane, provocando in tal modo un “salto di qualità” della vita teatrale veneziana. Infatti, qui è ancora ben radicata l’abitudine a rappresentare spettacoli di tipo popolare (feste sull’acqua, cacce al toro, momarie) o religioso (processioni, ma non sacre rappresentazioni). E per certi aspetti il repertorio proposto da quest’attore ha anche il non secondario pregio di fare da trait d’union tra cultura cortigiana e mondo spettacolare cittadino.
Panorama di Frosinone in una cartolina d’epoca
La carriera del De’ Nobili, che pure si dipana lungo tutto il primo trentennio del Cinquecento con sempre maggiore successo (e non soltanto a Venezia), non è scevra di fraintendimenti. Il Sanuto, infatti, addebita proprio a lui, uno straniero audace e fin troppo carismatico, la responsabilità della decisione del governo veneziano di vietare su tutto il territorio le recite teatrali fino al 1511.
A legare il nome di Gaetano Tizzone a quello di Francesco De’ Nobili detto Cherea è appunto la documentata circostanza per la quale il 27 febbraio 1525, insieme con i “Compagni Valorosi”, a ca’ Molin, Cherea – in quegli anni al massimo della sua popolarità – mette in scena la commedia di “Tizone neapolitano”, ossia la perduta Germusia, “cum intermedii di poesie et soni”, il che ci fa inscrivere la perduta Gemursia nel tipico modello dei grandi spettacoli rinascimentali.
Poc’altro dura la sua carriera veneziana – l’ultimo suo successo cittadino, capitato subito dopo la scomparsa dell’altro grande attore veneto Ruzante, è nel 1527 una commedia data per il carnevale –; segue qualche tappa all’estero (segnatamente a Budapest); e probabilmente si spegne nel 1532, anno dal quale non si hanno più sue notizie.
La quasi contemporanea morte di Ruzante e Cherea segna una battuta d’arresto per lo spettacolo veneziano, finendo per concentrarsi l’attenzione sulla produzione editoriale, che inonda gli scaffali con pubblicazioni teatrali di ogni tipo.
Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.
Vincenzo Ruggiero Perrino