Sommario
Abstract
Visitando la pinacoteca dei Musei Civici agli Eremitani ci si imbatte in una serie di dipinti di Antonio Maria Marini, artista attivo nel veneziano a cavallo tra XVII e XVIII secolo, noto soprattutto per i paesaggi; quello che invece attrae la mia attenzione sono i suoi soggetti di battaglie. Spesso si tratta di motivi in parte copiati o ispirati da più noti pittori della precedente generazione come il Borgognone o Salvator Rosa, ma non è il tratto artistico che mi colpisce quanto, piuttosto, il valore documentale di alcuni particolari. Mi riferisco ai cavalieri pistoleri.
Pittori che “fotografano” le battaglie
La tradizione del cavaliere in armatura con lancia in resta entra in crisi già con le guerre d’Italia della prima metà del ‘500 sotto la pesante pressione dei nuovi eserciti formati da corpi di fanteria organizzata. Il declino è inevitabile ma la nobiltà europea continuerà a combattere in armatura fino all’inizio del ‘700.
Alla fine del XVI secolo, la lancia lascia il posto alla pistola che, insieme alla spada, diverrà l’arma tipica del cavaliere per più di un secolo. Per tutto questo periodo i cavalieri saranno uno strano incrocio tra Wyatt Earp e Lancillotto.
Dalla cintola in su continueranno ad indossare un’armatura completa, elmo compreso, e cingeranno una spada alla loro sinistra; per il resto assomiglieranno più a cowboy che a paladini, calzando lunghi stivali in cuoio completi di speroni, e alla sella appenderanno due foderi con altrettante pistole.
Ormai ridotti a comprimari nei campi di battaglia, i nobili cavalieri rimanevano pur sempre i committenti degli artisti dell’epoca ed ecco quindi che a guardare i dipinti di Marini sembra che le battaglie venissero combattute e vinte grazie alla sola gloriosa cavalleria, relegando i fanti a figurini riempitivi della tela; grazie a questo forzato protagonismo, però, ora possiamo vedere rappresentata una forma di combattimento tipica della cavalleria del ‘600.
Due quadri del Marini mostrano cavalieri che sparano alle spalle con la pistola
Se guardiamo i quadri del Marini “Battaglia di cavalieri” (Foto 01) e “Attacco a un ponte” (Foto 02), noteremo dei soldati a cavallo che sparano girandosi all’indietro. Si vedono i cavalli lanciati nella mischia e il cavaliere che torce il busto sparando. A prima vista potrebbe sembrare una trovata stilistica, una di quelle forzature in pose estreme e teatrali tipiche del Barocco. Ma questa volta l’artista si è limitato a riprodurre la realtà, a dire il vero una realtà di qualche decade precedente, ma per noi osservatori moderni poco cambia.
In quel tempo le cariche di cavalleria, accantonata la lancia, si facevano direttamente con la spada e la pistola. Le pistole del ‘600 erano armi da fuoco ad avancarica, la pistola doveva cioè essere caricata inserendo la polvere da sparo e il proiettile direttamente nella canna, sparavano un solo colpo e, cosa non secondaria, erano enormemente imprecise, pertanto necessitavano di un tiro molto ravvicinato per avere effetto.
Quindi, la carica di cavalleria consisteva nel galoppare verso il nemico con la spada sguainata e, una volta arrivati a distanza ravvicinata, si tentava di colpire; una volta superato il cavaliere avversario, mentre il cavallo continuava la propria corsa, ci si voltava indietro e si sparava con una delle pistole mirando alle parti meno protette dall’armatura soprattutto alla schiena e ai fianchi.
Si trattava di un modo di combattere che richiedeva un grande addestramento, sia per il cavaliere che per il suo cavallo, e molto sangue freddo, nonché doti di coordinazione non comuni. Si pensi, che a causa delle manopole che proteggevano le mani, spesso si azionava il grilletto utilizzando il pollice e non l’indice.
Nel ‘600 sparare alle spalle era un gesto tutt’altro che da vili, anzi era la prova di coraggio per eccellenza. Anche nei duelli, quindi, come spesso accade nelle altre cose della vita, è solo una questione di prospettiva.
Fabio Dalla Cia