Dei santi e dei miracoli in Padova

Abstract

Una strana visitatrice in giro per Padova scopre storie di santi raffigurate nei molti capitelli della città, alcuni di grande valore storico e artistico altri legati alla religiosità popolare. Ne scrive un fantasioso racconto fatto di ricordi e di nostalgie per un tempo in cui tutto sembrava più vero e anche la religiosità aveva il sapore genuino della tradizione. Così va alla scoperta delle tracce della devozione che i molti capitelli disseminati per la città documentano.

All’altare del Santo

Sant’Antonio in Piazza del Santo

Se ne sta lì piantata nelle sue scarpe un po’ strette, imbozzolata in fumi di incenso, e fra le mani un’enorme candela odorosa, attenta a non rovinarla che la cera è cedevole e facilmente si striscia o si intacca; anzi l’ha scelto con cura quel cero, proprio quello, dal banco dei coronari, e ha preteso che fosse perfetto fra i tanti più o meno ammaccati. E che avesse un decoro elegante, le righe rosse sul bianco appena traslucido, un bouquet di gigli e di rose da decalcomania; e un sentore innocente di vecchi armadi di noce, come di sacrestia.

Lasciarlo giù in quel cassone di legno ai piedi dell’altare del Santo, insieme a tanti altri giacenti come spighe mietute, sperando che venga poi acceso, ma quando, e da chi? Lei si guarda intorno e non vede, difatti, nelle molte cappelle sbocciate tutto intorno alla navata centrale, quei trabiccoli neri di ferro battuto che reggono le candeline accese proprio ai piedi dei santi, a scaldarli nelle ore lunghe di notte quando la chiesa si svuota e restano solo i lumini a rendere le ombre più folte, a occhieggiare bagliori qua e là.

Non si risolve Isolina ad abbandonare il suo cero prima di averlo visto lucente, ardente di vita e speranza; eppure il cassone ne è pieno, di ceri, più grandi più piccoli, l’uno a fianco dell’altro, docilmente giacenti, in attesa.

Ed ecco le arriva all’orecchio una voce smorzata, e si volta: una donna – potrebbe essere lei, stessa età stessi modi insicuri e gentili – ha spinto una carrozzina così addosso al cassone che pare la voglia incorporare nel legno, o sfondarlo, e inanella parole e racconta alla carrozzina chissà mai che storie, pian piano; e porge alla carrozzina, alle giovani mani contorte e sparute che la abitano, un cero magnifico, grande.

“Posalo, dài posalo giù” incalza la voce, paziente.

Alla voce obbedisce Isolina e consegna d’impulso il suo cero al cassone, poi quasi correndo ritorna ad immergersi nelle navate in penombra, e guadagna la porta e respira la luce dell’ampio sagrato, del mondo.

Non è quello il posto per lei: ora sì lo comprende. Lei chiede un miracolo piccolo, piccolo, in fondo una cosa da niente: che il figlio si decida a trovarsi una casa, ad andare a stare da solo – e magari, perfino si vergogna a pensarlo, che questa ennesima dieta che ha appena intrapreso, funzioni. Inutile per questo scomodare il Santo, anzi quasi offensivo le pare: il Santo ha ben altri pensieri!

Ma allora, che fare – e a che santo votarsi? Un santo da piccole cose ci vuole – o forse una piccola chiesa, che sia quotidiana e dimessa e che accetti un lumino modesto, magari, ma acceso e danzante.

Seduta nel tram che solca ronfando le strade del centro lei passa in rassegna le chiese di sua conoscenza, e le sembrano tutte solenni, rinchiuse, grevi d’arte e di storia, e le pare che i santi e le sante fissi in pose ieratiche lì sugli altari barocchi le manderebbero sguardi magari non proprio di sprezzo, ma insomma…

E poi d’improvviso la sera, in cucina, mentre ripone nel frigo la cena del figlio che senza avvisare si è fermato al bar con gli amici, la pasta condita e pesante come piace a lui però che scaldata è cattiva, e dovrà finirsela lei se non vuole buttarla, e non vuole – ma e la dieta, la dieta? – poi d’improvviso ricorda: ci sono in città, nelle strade, all’aperto, dei capitelli o tempietti, come piccoli altari. Ricorda di averne già visto in passato ma senza prestarvi attenzione; ora invece si sente che il cuore le batte più rapido in gola: domani si metterà in cerca.

Ponte Molino

Il capitello di Ponte Molino

“Permissu Rainerii…” e una gran pappardella in latino che termina con una data, MDCCC e poi quasi cancellate XIX – le pare di sì. E chi sarà mai, si domanda Isolina, questo Rainero che deve dare il permesso, e a nome del re, quale re? E in che anno? Grattando il fondo delle memorie di scuola decifra il numero romano e le pare che sia, si, il 1819. Rimane un pochino delusa: pensava più antica quella semplice edicola piantata sulla spalletta del ponte che dal muraglione imponente di Porta Molino conduce a più aperta dolcezza, a viali alberati e piazzette che sanno già un poco di periferia. Levandosi dalla spalletta di pietra grigiastra, due bianche colonne corinzie racchiudono un arco di aspetto rinascimentale, sovrastato da un timpano triangolare come un tempio dei greci. La statua all’interno, protetta da una grata di ferro battuto e poi da una rete più fitta, si intravede appena: la Madonna col Cristo bambino, discreta e paciosa, lontana dalle teatralità esagerate di certo barocco; ai suoi piedi due bouquet di rose di seta che la polvere ha ormai divorato. Il Bambino ha il braccio destro levato in saluto, e sorride, mentre lei guarda avanti, ma dritta, e quindi lo sguardo non arriva, miracoloso, ad avvolgere Isolina ai suoi piedi ma fluttua sopra alla testa di lei e si perde in visioni lontane, forse l’angelo d’oro sulla cima del Santo, forse Venezia e il mare, chissà.

Troppo presa le sembra questa quieta Madonna in contemplazioni oceaniche, e le manca il coraggio di richiamarla alle proprie terrene questioni. Torna quindi ad infilare in borsa la candelina tealight che stringeva in mano già pronta, piccola e comprata dai cinesi e forse nemmeno di cera ma tutta un profumo fiorito, profumo di maggio e bontà.

Porta Portello

Il capitello di Porta Portello

Stavolta invece no che non è una cosetta appollaiata sul ponte, quello che Isolina si trova davanti sbucando dallo spessore massiccio e vagamente inquietante della porta Portello sul canale disteso, proprio prima della gradinata che scende a bagnarsi nell’acqua, un passo dopo l’altro, come ad una dimensione più significante eppure così quotidiana. Si trova davanti un tempietto completo ed ornato con quattro facce uguali, ancora due colonne corinzie a racchiudere un arco per ciascuna facciata, o almeno le pare perché quella rivolta al canale la si può intravedere soltanto. Di sopra un fregio alto a festoni e volute di acanto culmina in una cupola alta, ancor più elevata da un timpano bianco, e al sommo una piccola statua che appena, dal basso, indovini: un putto ammantato ed intento in sue misteriose faccende. E risplende bianca nel sole, ed invita ma insieme ti sembra che dica, nella sua purezza “vieni, però non toccare”. Si ferma Isolina alla cancellata di ferro irsuta di punte di lancia che fa da confine, ed ammira; dal lato del fiume l’arcata è murata mentre gli altri tre lati sono chiusi da basse cancellate, anche queste di ferro battuto, e vetrate; proprio al colmo un cartiglio illeggibile e due putti con le ali e uno sguardo un po’ torvo, accigliato.

Dalla parte opposta del fiume due scalini di ingresso, e a terra una scritta tanto consumata che solo riesce a decifrare “RIPAM ACCESSU”. Ma dentro, così ben protetto? Isolina si sporge di lato, si spinge più avanti, che i riflessi del sole sui vetri impediscono di vedere bene; si aspetta un’altra Madonna, visto che un tabellone turistico proprio lì accanto le spiega trattarsi della “Edicola di Santa Maria dei barcaroli”, anno 1790. Nessuna Madonna però: invece le appare l’ingombro pesante di un saio marrone, un frate che abbraccia il Bambino e lo guarda rapito e pensoso. Sant’Antonio, ancora, e sempre ed ancora rapito in mistiche contemplazioni da cui certamente le preoccupazioni mondane di una povera donna svaniscono come nebbia al sole.

Eppure è così invitante il tempietto, candido, puro, tutto proteso all’alto come una speranza… Incerta Isolina si guarda alle spalle: dall’altro lato del ponte, sotto ampi ombrelloni quadrati di tela, gruppetti di giovani bellissimi e biondi si godono enormi bicchieri di spritz o pestano, assorti, sui tasti dei loro laptop. Altri, reggendo ampi vassoi, fanno la spola su è giù dai tre scalini del bar.

Bar di studenti, c’era anche ai suoi tempi; ed erano allora studenti di scienze, di fisica ed ingegneria tutti assorti in loro realtà parallele. Fra questi però da qualche anno distingui i futuri psicologi dal nuovo palazzo squadrato e monastico, già tutti compresi nel ruolo: e ti puntano addosso due trivelle seriose, ti scrutano da dietro gli occhiali, e chissà cosa andranno a pensare di questa signora attempata che tituba ai piedi del Santo…

Arrossata e confusa, Isolina batte in ritirata, mandando un pensiero nostalgico al Santo lì dentro il tempietto, al riparo da sguardi indaganti, beato di contemplazione.

Una veduta di Porta Portello con il capitello votivo

Edoardo

“Edoardo, possibile? Cosa ci farà qui?”

Isolina si sporge oltre al bordo del lungo bancale; là in fondo, ha sentito la voce, il figliolo contempla scaffali, sì, di detersivi (ma in vita sua mai nemmeno un bucato si è fatto), poi afferra un fustino della marca che lei adopera a casa (ma guarda un po’, allora se la ricorda) e tutto orgoglioso lo mostra – lei trattiene il respiro, ma sì, lo mostra ad una biondina graziosa appoggiata a un carrello strapieno. La quale gli strappa il fustino di mano e torna a riporlo sullo scaffale, ne prende un altro diverso di una marca mai vista, e glie lo mostra e gli parla scattante, come se gli spiegasse, agitando il fustino e mostrandogli, che cosa, chissà. E lui, che di solito ha sempre ragione, lui la guarda come un cagnolino, come di sotto in su, lui che è tanto più alto, e annuisce, annuisce, rapito.

Miracolo, esulta Isolina, si è fatto la fidanzata ed è una decisa, le pare, una che non si farà piantare come è sempre successo finora. Miracolo, o quasi, che il momento è cruciale e richiede gran circospezione e massima diplomazia, potrebbe accadere di tutto, potrebbe stufarsi di lui la biondina, non ci vuole neanche pensare.

E trattenendo il fiato e il respiro per non farsi sentire Isolina se ne sguscia via, e ringrazia la Madonna e il Santo che la stanno aiutando lo stesso, anche senza la candelina che ce l’ha ancora in borsa da tanto e si sarà pure sciupata. Ma certo non deve lasciare il suo pellegrinaggio proprio ora, ora che viene il bello! Domani si rimetterà in caccia, e andrà tutto bene, glie lo dice il suo istinto di mamma – stufa sì ma però sempre mamma – e per festeggiare si compra una pasta alla crema al bancone del pane e se la divora lì in piedi in mezzo al parcheggio coperto e le puzze delle auto nemmeno le sente ma solo il profumo avvolgente di latte e vaniglia, e la dieta? La dieta, domani.

Pontecorvo

Ed eccola ancora a passeggio, in un giorno che minaccia pioggia; si è scordata di portare l’ombrello e da Pontecorvo a testa bassa si affretta verso il centro e le vie intorno al Santo, che nelle loro botteghe i cinesi te li vendono a poco. Alza gli occhi e le appare davanti, a mano destra subito prima del ponte, una cancellata ma ariosa, appena più alta di lei, che raccoglie e disegna una auletta rettangolare con il pavimento a mattoni quadrati di cotto, logori, ingrigiti dal tempo. Sul lato corto addossato alle case si appoggia un altare sgraziato nel suo color ocra vivace, e sopra, fra quattro lastre di pietra a cornice, una donna.  Giovane, assorta in dolcezza severa, dipinta ad affresco nei toni del grigio su cui spicca rosso il mantello. Gli occhi? Li tiene socchiusi a contemplare un librone che regge nel cavo del braccio sinistro come fosse un infante, mentre l’altra mano sorregge la palma dei martiri, e una spada le sbuca dal seno, ma senza dolore né sangue. Ai suoi piedi una scritta maiuscola: S.TA GIUSTINA DE BOROMEIS. E tutto quello spazio arioso, invitante, è coperto e protetto da una cupoletta dipinta: il sole dorato nel mezzo, e intorno da un fondo celeste fioriscono stelle giocose, a contrasto col fermo silenzio di lei.

Giustina, la santa di Padova! Che sciocca si sente Isolina ad avere scordato questo semplice tempio, la pittura che diresti moderna e tuttavia classica e bella come una statua romana perfetta nelle proporzioni, serenamente maestosa.

Isolina si scorda la pioggia che sta già iniziando a percuotere di gocce pesati il selciato, e se ne rimane incantata a guardare quel viso, a scrutare le ciglia di lei se per caso non alzi lo sguardo un istante, non la possa sfiorare; e si dice tra sé che sarebbe uno sguardo terribile, di fuoco e potere, e sapienza, e misericordia e perdono.

La risveglia il sentore di un’acqua gelata che dal bordo del tetto le scivola giù per il collo: di corsa guadagna il riparo del portico di là dalla strada. E il cuore le impazza nel petto, meravigliato e commosso.

Porta Pontecorvo in una cartolina d’epoca

Nella biblioteca

E piove, ancora. Girato l’angolo, sbucata da sotto l’ala del portico si imbatte, proprio a due passi da lei, in un ombrello rosso che veleggia spavaldo trascinando con sé, ma sì è proprio lei – la biondina di Edoardo – ed ecco anche lui tutto curvo in avanti a cercare riparo sotto quell’ombrello che per lui è troppo basso, per lui così alto; e poi gli si sottrae.

Lui insiste tenace, e le parla; lei tira diritto. Cosa mai si diranno, Isolina protende le orecchie ma il tacchettare nervoso di lei le copre qualunque altro suono.

Litigio? Sarà mica la fine? Si sente come un tuffo al cuore, e il respiro si arresta, la pioggia impietosa la sferza – Ma ecco, miracolo, lui si è insinuato alla fine sotto quell’ombrello e le sfiora una spalla, le parla; ed ecco lei appena rallenta la corsa, rilascia le spalle, si va ammorbidendo, perfino si volta a sbirciarlo.

Isolina respira, rallenta, se li lascia uscire di vista: non tutto è perduto, non ancora almeno, e domani, promette l’istinto di mamma, qualche santo provvederà.

Contenta; e si infila nel palazzone squadrato della biblioteca, cercando di strappar via lo sguardo che tira ostinato a sinistra dove anche tirando diritto si intravedono i tavoli e il banco del bar, e proprio di fianco alla porta le ammicca e le manda profumi la vetrinetta dei dolci. Dannata, maledetta dieta!

Poi in cima alle rampe di scale, fra i marmi color crema dell’atrio che immette alla biblioteca, sporge sopra uno sgabello il cartone dei libri scartati, offerti a chi vuole pigliarseli; ogni tanto ha trovato qualcosa che è valsa la pena. Li spulcia, sono vecchi e consunti e non dicono nulla; però proprio in fondo le appare un fascicolo triste, copertina di un grigio ingiallito senza abbellimenti, senza fantasie. Il titolo invece la arresta: CAPITELLI A PADOVA, maiuscolo e splendido e rosso.

Lo agguanta, e piombata a sedere sul gradino più in alto si immerge a studiare quei fogli dimenticati e preziosi. E scopre che quaranta anni prima un signore, e ormai sarà morto, si è speso a girare per tutte le strade e le piazze mappando le croci, le immagini, i simboli della devozione – che amore, quell’uomo, che cura! E guarda, e sono tantissimi, sono quasi duecento quei segni lasciati nei secoli da tante persone scomparse, scordate… e ripensa tutti i loro affanni, alle loro preghiere per piccole cose importanti forse come le sue, ai miracoli forse arrivati, al tempo che tutto cancella, paure e speranze e dolori. E quella teoria sconosciuta di supplici che sfuma nei secoli indietro, ciascuno di loro lo sente presente e vicino, lo sente fratello e sorella.

E pensa anche al suo, di miracolo, che ancora ha bisogno di cura e di perseveranza, di fede. Duecento, sono i capitelli? Lei drizza la testa, le spalle: due al giorno, e si inizia domani.

Laura Rodighiero

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