Intervista a Bepi De Marzi

Giuseppe De Marzi

Di Giuseppe De Marzi, Bepi, si può dire di conoscere tutto. Ha sempre fatto l’insegnante di musica e l’organista di chiesa. È stato per lungo tempo clavicembalista o organista dei Solisti Veneti. Si è rivelato come narratore nelle pagine de Il Giornale di Vicenza e di altri “fogli”. L’Editore Galla, anni fa, ha raccolto una settantina di questi articoli nel volume L’esclusiva dell’evento. E si capisce, ma il musicista di Arzignano non l’ha mai nascosto, che il suo vero mestiere sarebbe stato il giornalismo di costume. Gli abbiamo posto poche ma rapidissime domande, proprio nello stile che preferisce.

Intervista

Maestro, vorremmo subito una citazione, come fosse l’esergo di un libro. C’è un poco conosciuto aneddoto per l’inizio del nostro dialogo?

– Una raccomandazione dell’indimenticabile maestro Scimone: “Suono, suono, tirate l’arco!”.

Ci può spiegare?

– Qualche settimana fa, ben oltre le Alpi, sono stato invitato alla prova vivaldiana e bachiana di un complesso d’archi formato da giovani musicisti europei. Il suono era misero, freddo. Mi sono permesso di intervenire con una frase ovvia e vagamente autoritaria, anche spiritosa: “Ma insomma, ragazzi, tirate l’arco!”. La risposta è stata più glaciale del suono generale: “Dove?”.

Ma i nostri Solisti Veneti? Lei ne ha fatto parte per molti anni.

– È vero: con loro ho tanto suonato l’organo e il clavicembalo, seppure indegnamente: perché la bravura del primo clavicembalista, Edoardo Farina, è stata insuperabile. Il maestro Scimone mi ha chiamato nel 1976 per una tournée in Australia e mi ha anche nominato insegnante al Pollini, dov’era direttore. Ma tornando al suono, ancora oggi, a cinque anni dalla sua scomparsa, con il nuovo direttore Giuliano Carella che imposta programmi nella luminosa tradizione, con musiche fortemente coinvolgenti, il suono, che possiamo definire inventato dai primi Solisti Piero Toso e Giovanni Guglielmo, oggi proseguito da Lucio Degani e Chiara Parrini, e c’è anche il nostro violoncellista Gianantonio Viero, è sempre il massimo impegno di tutto il Complesso che conferma il prestigio raggiunto in sessant’anni di inimitabile attività mondiale. E il “tirare l’arco” appassionatamente è il gesto della felicità ereditata, trasmessa, da Scimone. Come dimenticare il suo sorriso con il gesto armonioso? E quei fortissimi alternati ai pianissimi quasi impercettibili? E i fraseggi generati dal respiro poetico?

I solisti veneti con Claudio Scimone

Lei è vicentino. Ha insegnato anche nel Seminario Diocesano di Vicenza, invitato da monsignor Ernesto Dalla Libera, l’amico di Lorenzo Perosi, possiamo dire anche il suo fedele discepolo. Che ricordi ha di quella particolare esperienza?

– I chierici, i diaconi, studiavano intensamente la musica e cantavano nelle Sante Messe ogni domenica in Cattedrale. Generazioni e generazioni di sacerdoti preparati anche nella conferma di un gusto generale diffuso, raffinato. Ma in Italia, i Seminari diocesani sono pressoché scomparsi. Confesso di stare attraversando un periodo di amarezze indicibili per l’attuale drammatica, penosa situazione della musica sacra. Quando hanno cominciato a imperversare i rockettari nella liturgia cattolica italiana, monsignor Dalla Libera ha dichiarato dolorosamente il suo “Nunc dimittis”. Ho cominciato a suonare in chiesa ogni domenica fin da quando avevo quattordici anni. Tre o quattro Sante Messe al mattino e Vesperi nel pomeriggio. La fede mi è stata trasmessa dai genitori, laboriosi e ispirati. Anche lo studio della musica è stata  una felice obbedienza al loro volere. Per me hanno scelto il mestiere della libertà nella fantasia, pur se avrei voluto fare dell’altro.

Ma da dove viene, allora, tanta amarezza, tanto pessimismo?

– Da credente e praticante, sono rimasto credente, sì, ma isolato, sconsolato, perfino dileggiato per la mia lunga collaborazione poetica e musicale con padre David Maria Turoldo e Ismaele Passoni.

Ci può raccontare un poco di questa semisconosciuta attività?

– Preferisco piangere in silenzio. Dieci anni dopo il Concilio abbiamo proposto melodie facilmente memorizzabili. Poteva essere la poesia della fede in versi piani, con i Salmi, gli Inni, i Cantici che proseguivano dalla tradizione. Volevamo coinvolgere le assemblee. Ma hanno prevalso le invenzioni meccaniche degli affaristi. Ecco il perché delle chiese sempre più vuote.

A Vicenza, presso l’Istituto Canneti, ha formato un Coro Polifonico, il “Nicolò Vicentino”. Perché non ha proseguito?

– Collaboravo con la grande insegnante di Canto Elena Fava Ceriati. Le voci corali erano giovani e brillanti, come la bellezza delle ragazze e dei giovanotti. Abbiamo anche realizzato una registrazione di musiche sacre per una prestigiosa editrice nazionale. Potevamo essere un esempio. Ma ha prevalso la banalità diffusa dopo il Concilio.

Il Coro Polifonico Vicentino

Il Concilio. Perché insiste nel considerarlo negativo per la Chiesa?

– Uso una frase del grande organista Sandro Dalla Libera rivolta allo zio monsignore: “Zio Barba, a Roma c’è lo scatenamento degli iconoclasti!”.

Le sono stati assegnati molti premi. Dal presidente Mattarella è venuta la nomina a commendatore.

– Quando con i miei Crodaioli sono stato invitato al Quirinale, pareva che il Presidente volesse cantare con noi. Abbiamo parlato di Vaia, dei boschi, delle montagne, della vita nei campi. Degli emigranti italiani e degli immigrati quotidiani. Abbiamo intonato l’ultimo mio canto: “I bambini del mare hanno gli occhi di conchiglia, le scarpine di pezza cucite dalla mamma prima di partire, prima di morire”. Eravamo nella Cappella Paolina. C’era tanta commozione. Ci siamo lasciati con la poesia di Turoldo: “Resta con noi, Signore, la sera, quando le ombre si mettono in via”.

Dall’aneddoto dell’inizio all’ultima curiosità. Lei ha fatto il soldato nei paracadutisti alpini. Come ha accolto in questi giorni il libro del Generale della Folgore?

– È un libro comico, infantile. Alla fine ho sospirato con Meneghello: “Volta la carta, la ze finìa”.

            A cura di Federico Cabianca

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