Aglaia Anassilide – Angela Veronese (Montebelluna, 1779 – Padova, 1847)

Abstract

Aglaia Anassilide (Angela Veronese)

Esiste una “Storia della letteratura veneta” documentatissima, scritta con eleganza e precisione, dal periodo romano (Catullo, Tito Livio) ai giorni nostri (Arslan, Tamaro, Scarpa), reperibile in autopubblicazione solo fino al quattrocento, a cura della figlia Roberta, che non ha ancora trovato l’editore che merita, mentre solo “Il settecento veneziano. La letteratura” è stato pubblicato nel 2007 da Fiore.  I motivi sono: la scomparsa del suo autore, il professore e critico Bruno Rosada, la vastità del lavoro, ben sei volumi, secondo la suddivisione dell’autore, per un totale di oltre novecento pagine con un carattere Times 12, oltre alla necessità di una rilettura globale, per una eventuale revisione. Così la redazione di Padova sorprende ha scelto di estrapolarne singoli capitoli che permettano sia di apprezzare la qualità del lavoro critico di Bruno Rosada sia di riscoprire autori veneti, nello specifico la poetessa Angela Veronese. (Si ringrazia la famiglia Rosada per aver concesso la pubblicazione di questo inedito)

 Da “Storia della letteratura veneta. Cap.29 – L’Ottocento. Aglaia Anassilide”

Citerea[1] gridava: aita,
Perché Amor l’avea ferita;
Imeneo[2] che il grido udì
Pronto accorse e Amor fuggì[3].

È forse il più celebre dei componimenti di questa sorprendente poetessa, Angela Veronese, in poesia Aglaia Anassilide. “Questo epigramma ebbe la fortuna di essere tradotto in tedesco dal conte Pagani-Cesa, ed in latino dall’abate Dalmistro, e d’essere ristampato in varie raccolte”, scrive l’autrice nelle Notizie della sua vita scritte da lei medesima, una simpatica, gradevolissima autobiografia, che mette in luce la sua intelligenza e la sua qualità di scrittrice. E anche un contenuto ma efficace senso dell’ironia.

Ma chi era Aglaia Anassilide? Intanto perché si chiamava, anzi si faceva chiamare, così? Al tempo dei romani il fiume Piave si chiamava Anaxus, e Anassilide vuole essere un toponimo. Quanto ad Aglaia esso è il nome di una delle tre Grazie (le altre due sono Eufrosine e Talia). Questo è il suo pseudonimo, assunto a somiglianza delle consuetudini dell’Accademia dell’Arcadia, della quale però lei non fece mai parte.

Lasciamo ancora a lei la parola:

“Io nacqui sul finire del secolo XVIII[4] in riva alla Piave[5], in una villetta chiamata Biadine[6], situata alla punta del Bosco Montello, verso il levante, poco distante da Treviso e pochissimo da Possagno, patria dell’immortale Canova. Mio padre di nome Pietro Rinaldo, mia madre Lucia erano povere ed oneste persone: queste due qualità vanno quasi sempre unite. L’uno era di professione giardiniere, l’altra figlia d’un fabbro. S’io fossi nata nel secolo del gentilesimo[7] potrei dire che la mia discendenza ha del divino, poiché appartiene a Flora ed a Vulcano. Posso ben dire d’esser nata libera e non serva”.

E con questa bella affermazione si presenta ai lettori.

E poi racconta che quando aveva tre anni il padre andò come giardiniere a servizio nella “eccellentissima casa Zenobio in Santa Bona, villetta graziosissima due miglia fuori di Treviso verso il settentrione”, e poi si trasferirono nel palazzo Zenobio ai Carmini in Venezia, oggi sede del Collegio armeno dei PP. Mechitaristi.

“Eccomi a Venezia. Questa famosa, bella ed allor[8] ricca città brillava di tutto il suo splendore. Il Doge Renier[9] era il suo principe. Io lo vidi sposar il mare, e domandai a mio padre come la Chiesa permetteva un tal matrimonio, che univa la Dea Teti pagana ad un cattolico Principe. Ecco il frutto delle letture invernali impresse nella mia testa dal villano Bernardo[10] e coltivate in me dal padre mio. Egli trovò così giudiziosa la mia riflessione, che la ripeté per molti anni alli suoi amici. Tutti i maschi e le femmine che partorì mia madre prima e dopo di me erano volati ad accrescere il numero degli angeli. Io sola era l’unica delizia e l’unica speranza di mia famiglia. Rassomigliava tanto a mio padre che sembrava un altro lui stesso; una ragione di più per essergli cara.

Il palazzo di Cà Zenobio era uno dei più belli di Venezia; esso sembrava una reggia. Il canale detto dei Carmini gli passava davanti. Un bel giardino gli abbelliva la vista di dietro. Due viali coperti di alberi fruttiferi formavano il recinto di questo; una vivace fontana di acqua dolce sorgea nel mezzo ed una galleria maestosa gli serviva di prospettiva nel fondo. Alla parte sinistra v’aveano le mura del convento dei Frati del Carmine, a tal che si udivano distintamente le loro salmodie. Dalla parte destra v’era un bell’orto, che per frutta ed erbaggi cedeva di poco a quello di Tempe. In fondo all’orto v’era un bel pergolato che formava uno dei punti di vista del giardino, sotto di cui si vedea la statua di Enea che portava Anchise sopra le spalle, seguito dal picciolo Ascanio, che mi fece ricordar subito il mio povero Menin[11].

La prima disgrazia che mi successe in Venezia fu la perdita della mia gatta morta decrepita sulla stessa seggiola dove io era solita di accarezzarla. La piansi alla disperata; il mio genitore lodò le mie lacrime, poiché erano non dubbia prova della mia sensibilità. Mia madre e mia nonna le biasimarono dicendo che per le bestie non bisognava piangere. Chi di loro avesse più ragione lascio giudicare a chi avrà avuto la sofferenza di legger fin qui queste memorie. L’estinta bestiola fu seppellita in fondo all’orto; un garzone lavorante nel suddetto gli piantò sopra il tumulo funereo, per compiacermi, un bel rosaio, le cui rose io chiamai sempre le rose della gatta.

La seconda disgrazia fu il vaiuolo, che in allora facea strage dei fanciulli. Questa crudel malattia mi assalì con tanta forza che fui tenuta per morta. Sul terzo giorno che le pustule erano nel loro fermento non mi fu possibile di poter aprire gli occhi. Stetti cieca sei giorni, cosa che mi fece ricordar il povero cieco-nato di Santa Bona[12], e compianger la disgrazia di lui, che più non esisteva, nella mia attuale disgrazia.

Anche da ciò parmi tralucere una certa filosofica carità, di cui non so spiegare il mistero. Nel breve periodo delli sei giorni, che mi sembrarono sei anni, udiva la voce de’ miei parenti, che mi trapassava il cuore. Le lagrime del mio povero padre m’innondavano il seno, le mani e la faccia; le orazioni di mia madre, i tristi pronostici di mia nonna formavano un contrasto di affetti doloroso al pari della mia sventura. Finalmente riapersi gli occhi; fissai con un sorriso il mio corpicciuolo tutto tempestato di perle così scherzando io chiamai le pustule ridotte a matura supurazione.

Era nella più felice convalescenza allora quando si dovette troncarmi le chiome rese cadenti ed indocilissime dalla perniciosa malattia. Avrei data qualunque cosa per redimere i miei bellissimi capelli, ch’erano oggetto di meraviglia a chi li vedea, tinti dalla natura di un colore castagno oscuro, folti, inanellati e lunghi quasi quanto la mia gracile figurina; non li avrei dati per un tesoro. Conobbi allora d’essere vera femmina, poiché l’ambizione cominciava a prendere possesso delle mie idee. Per compensarmi della perdita mi fecero un elegante vestito di lana rossa; un berettoncino di velluto copriva la mia testa spoglia delle sue belle chiome come quella di Berenice[13]. Il mio berettoncino era sovente adornato dal mio genitore con foglie sempre verdi di mirto e di lauro, che cresceano in gran copia nel giardino. Così preveniva il mio genio con gli attributi di Amore e di Febo, che divennero poscia i due numi che m’inspirarono tanti versi soavi e tante immagini ridenti.

In quei due anni che la mia famiglia si trattenne in Venezia passai il tempo ora giuocando con la bambola, ora frequentando una picciola scuola femminile poco lontana dalla mia casa, cioè in campo così detto dell’Angelo Rafaele. La direttrice era una buona vecchietta, che mi amava ad onta della mia vivacità che bene spesso le mandava sossopra tutta la scuola. Io raccontava alle mie compagne tutto ciò che aveva sentito leggere dei Paladini, delle Fate, delle Metamorfosi, e dell’Eneide[14]. Non badavano più alle orazioni, né ai lavori; tutta la stanza risuonava di favole, d’istorie e di nomi estrani, barbari, fantastici, greci e latini. La direttrice pregava, minacciava, prometteva; tutto era inutile: ella si portò finalmente da mia madre dicendo che era costretta a congedarmi con dispiacere, poiché era un diavoletto indomabile.

Eccomi nuovamente fra i paterni lari. Mia nonna si prese la cura di farmi da maestra tenendomi chiusa seco nella sua cameretta. Incominciò dall’insegnarmi di bel nuovo l’abbiccì, promettendomi, se io imparava, di lasciarmi erede di tutta la sua libreria, che consisteva in vari romanzi, alcuni libri di preghiere, le meraviglie dei Santi del Padre Rossignuoli; libri che raccontavano miracoli i più prodigiosi. In poco più di due mesi che durò la nuova mia educazione feci tanto diventar matta mia nonna, che s’ella avesse avuto pazienza mi sarebbe stata debitrice della gloria del Paradiso.

Nei giorni di festa il mio buon genitore mi conduceva a veder ciò che offriva Venezia di più interessante, cioè la gran piazza di S. Marco, la Chiesa dello stesso nome, l’altissimo suo campanile, la riva degli Schiavoni, le Zattere, la Giudecca, il ponte di Rialto, alcune Chiese bellissime, alcuni giardini particolari, ed il gran Lido del mare. Questa ultima veduta, non so perché, mi piaceva più di tutto.

Finalmente la mia famigliuola se ne ritornò alla sua diletta Santa Bona”.

Successivamente la famigliola si trasferì nella villa Albrizzi sul Terraglio. “Ebbi in quello stesso anno a vedere per la prima volta la contessa Isabella Teotochi, ora Albrizzi. Questa bella Dama adorna di spirito, coltura e gentilezza passeggiava il giardino fra molti nobili ed eruditi cavalieri; mi accostai a lei presentandole un fiore ed un epigramma, di cui non mi ricordo che la seconda parte; eccola:

Il favore ch’io dimando
Io ti prego nol negar:
Questo fior ti raccomando
Sul tuo seno di posar.

La dama gentilmente lo aggradì: anzi aggradì l’uno e l’altro. Mi regalò sul momento le bellissime canzoni del Savioli, che mi resero estatica di ammirazione. Non molto dopo la stessa Dama m’incoraggì con nuovi favori spedindomi da Venezia la traduzione dell’Eneide dell’Annibal Caro, e le Metamorfosi di Ovidio tradotte dall’Anguillara. La replicata lettura di quest’ultimo libro mi fornì la fantasia di tutte quelle erudizioni mitologiche ch’io feci e fo brillare di quando in quando ne’ miei versi.

A canto di quest’amabile contessa ebbi la bella sorte di conoscere il celebre letterato cavalier Ippolito Pindemonte, che sotto una tranquilla fisionomia vanta un’anima adorna di tante belle e luminose virtù”.

Verrebbe da pensare che Aglaia abbia conosciuto Foscolo in quella villa Albrizzi sul Terraglio, invece Aglaia ci narra l’incontro col poeta come avvenuto nella “malinconica villa detta Breda, non molto lontana dal fiume Piave, verso Oderzo”, villa del conte Spineda di Treviso, al cui servizio si era trasferito suo padre. E lì ella poté “personalmente conoscere il celebre Ugo Foscolo. Il suo vestito di panno grigio oscuro, senza alcun segno di moda, li suoi capegli rossi radati come quelli d’uno schiavo, il suo viso rubicondo tinto non so se dal sole oppur dalla natura, li suoi vivacissimi occhi azzurri semi-nascosi sotto le sue lunghe palpebre, le sue labbra grosse come quelle d’un Etiope, la sua sonora ed ululante voce, mel dipinsero a prima vista per tutt’altro che per elegante poeta. Egli appena mi vide s’alzò da sedere dicendo: – È questa la Saffo campestre? è molto ragazza; si vede dai suoi occhi ch’è vera poetessa. – Il suo complimento mi fece ridere. – Gran bei denti! esclamò egli; ditemi alcuni dei vostri versi. – Dietro a queste sue lodi non mi sembrò più tanto brutto; mi feci coraggio, e gli recitai un mio idilio pastorale, ch’egli applaudì avvicinandosi a me più che non permetteva la decenza della vita civile. Mi dimandò cosa io pensava di Saffo[15]. – Penso, risposi, ch’ella fosse più brutta che brava, poiché Faone la abbandonò…. – Oh cosa dici, ragazza mia? esclamò Foscolo, questa è una bestemmia; Saffo era bellissima, grande, bruna, ben fatta, ed avea due occhi che pareano due stelle. – Pregato dalla contessa Spineda a farci lieti dei suoi bei versi, fu compiacente, e ci recitò con molta naturalezza alcune ottave sulla voluttà, alcune terzine dirette ad una sua Virginia, di cui i maligni dicevano che fosse da esso amoreggiata onde ottener grazie più favorevoli alla sua economia che alla sua sensibilità[16]. I suoi versi mi resero estatica. Pareva veramente inspirato da un nume. Tra l’immaginazione italiana brillavano tratto tratto lampi di foco pindarico. Egli sembrava un genio celeste che rendesse omaggio alle divinità della terra”.

E dato l’ambiente in cui si trovava e la sua intelligenza e la sua cultura, ma anche il suo spirito garbato, ella venne a conoscere ed a frequentare le maggiori personalità della cultura del tempo presenti nel Veneto, a parte il rapido incontro con Foscolo,  dal Melchiorre Cesarotti ad Angelo Dalmistro da Jacopo Vittorelli a Luigi Carrer, ed ebbe anche “anche la bella sorte [come dice lei] di essere presentata all’egregia e colta Dama Giustina Renier-Michiel, che mi accolse con la sua solita benignità”.

Al Carrer dedicò questa poesia. Che è importante non già per il destinatario quanto perché fa il punto della situazione poetica del momento rispetto alla quale la poetessa prende posizione.

L’Arcadia.
Ad Arminio Luigi Carrer

Ah! che tranquilli e lieti
Ama Febo i Poeti.
BONDI

In qual letargo indegno
Languisci, Arcadia mia[17]?
Formaro il tuo bel regno
Amore e poesia;
E di lauri t’ornaro
Cristina[18] e Sannazzaro[19].

Le sbigottite Muse
Fuggon di Pindo[20] in cima,
E timide e confuse
Negan l’aonia[21] rima
Ai sfortunati e lieti
Italici poeti.

Il pregiudizio insano[22]
Vola di tetto in tetto,
E accenna con la mano
I titoli, il rispetto,
E le tanto sognate
Pergamene dorate[23].

All’umile virtude
Fa il vizio oltraggi e danni,
Lacero vel la chiude,
La opprimono gli affanni;
E Frini[24] e adulatori
Han gl’itali tesori.

Arminio[25], tu che splendi
Chiaro tra’ vati primi,
Tu nell’Arcadia accendi
Coi carmi tuoi sublimi
Un lampo a noi foriero
Del suo valor primiero.

Ah! sì cantiamo, amico,
Gli arcadi prischi[26] vanti,
Ed il fulgore antico,
E i tanti serti e tanti,
Onde fregiò la chioma
Alla vittrice Roma.

Nella casa del Petrarca in Arquà

Onor dei cigni ascrei,
Primo fra il Delio[27] coro,
Di cui la cetra d’oro
Laura risuona ancor;

La semplice Anassillide
Nata in campestre lido,
Offre al tuo casto nido
Un mazzolin di fior.

Accogli il picciol dono,
Il mio desir seconda,
Chiedo una sola fronda
Del tuo divino allor.

Spargendo di fiori la tomba del Petrarca

Di te degno, e a te più grato
Ben sarebbe il casto allor[28],
Ma nel povero mio prato
Solo nascono de’ fior.

Angela Veronese morì a Padova l’8 ottobre 1847. Ma la sua produzione non si è limitata alle poesie ed alla deliziosa autobiografia. Scrisse anche una lunga novella in prosa, Eurosia: storia d’una ragazza di campagna sedotta con l’inganno di un finto matrimonio da un ricco cittadino. Si annega nel Piave insieme con l’innocente frutto della colpa, mentre al seduttore toccano in punizione una moglie infedele e l’amputazione di un braccio.

Liceo Angela Veronese (Montebelluna)

NOTE

[1]     Citerea: Venere.

[2]     Imeneo: la divinità che presiedeva ai matrimoni.

[3]     E Amor fuggì: sancisce scherzosamente il detto popolare che il matrimonio è nemico dell’amore.

[4]     Sul finire del secolo XVIII: per la precisione nell’anno 1773. Perdoniamo questa reticenza civettuola alla simpatica poetessa!

[5]     In riva alla Piave: nel Veneto i nomi dei fiumi erano un tempo tutti femminili (La Piave, la Brenta). Poi l’unità nazionale fece scomparire certe peculiarità localistiche e i fiumi … cambiarono sesso.

[6]     Villetta chiamata Biadine: Villetta nel senso di agglomerato di case, villaggio, dato che poche righe dopo ci spiega che la sua era una “cadente casupola, ombreggiata da piante fruttifere”. ora il centro si chiama Valdobbiadene.

[7]     Secolo del gentilesimo: anche qui scherza garbatamente sull’equivoco del termine “gentile”, che ha tra i significati anche quello di “pagano”.

[8]     Allor ricca: Aglaia Anassilide pubblica questo testo nel 1826, quando evidentemente i segni della rapida e grave decadenza di Venezia erano già ben visibili.

[9]     Doge Renier: Paolo Renier fu il penultimo doge di Venezia dal 1779 al 1789.

[10]   Bernardo: nelle pagine precedenti aveva narrato di questo aiutante del padre a Santa Bona, che “leggeva ciò che gli comandava mio padre, ora il Tasso, ora l’Ariosto, ora il Cicerone del Passeroni, ed ora l’Omero del Boaretti. Io cresceva in mezzo alle idee greche e romane, coi Ruggeri e i Tancredi nella mente, con le Clorinde e le Bradamanti nel cuore, e con Alcina ed Ismeno nella fantasia, i portenti magici dei quali mi faceano sognar la notte e tremar il giorno. Alcune ottave del Canto VII del Tasso imparate a memoria come i papagalli, e da me recitate come una marionetta a quei villani, mi faceano passare per la picciola Sibilla del villaggio”.

[11]   Il mio povero Menin: povero perché “bersagliato talmente dalla rachitide che camminava col deretano”. Era stato suo amichetto nel periodo di Santa Bona.

[12]   Il povero cieco-nato: si chiamava Osvaldo ed era uno dei custodi della villa. La piccola Aglaia lo scoprì morto nel suo letto: “Una mattina, che mi sta fissa tuttor nella memoria, io mi portai al letto dell’ammalato, lo chiamai replicatamente con quella forza di polmoni che permetteami la mia età, lo scossi, lo chiamai nuovamente; egli era freddo del gelo della morte. Corsi alla camera di mia madre dicendole: – Il nonno dorme, ma è così freddo e duro, ch’io non lo conosco più. – Venne mia madre e spaventata esclamò: – È morto. – È morto? io replicai; oimè! egli non mi condurrà più alla Chiesa, e quel ch’è peggio neppure a raccogliere i funghi”.

[13]   Come quella di Berenice: è molto probabile che qui ci sia una reminiscenza del titolo della “La chioma di Berenice” di Callimaco tradotta in latino da Catullo e in italiano da Ugo Foscolo.

[14]            Delle Metamorfosi e dell’Eneide: di Ovidio le prime e di Virgilio la seconda.

[15]   Saffo: la grande poetessa greca vissuta tra il VII e il VI sec. av. Cr.

[16]            Onde ottener ….  alla sua sensibilità: qui Aglaia avvalora quello che molti biografi di Foscolo affermano.

[17]   Arcadia: Il riferimento è esplicitamente diretto all’Arcadia, più che come istituzione (della quale del resto Aglaia Anassilide non ha mai fatto parte), come movimento letterario e quindi come stile e come gusto. La poetessa avverte che ormai l’Arcadia è tramontata e la rimpiange.

[18]   Cristina: fu regina di Svezia dal 1632 al 1654. Poi abdicò e si stabilì a Roma dove creò l’Accademia Reale dalla quale, l’anno dopo la sua morte, avvenuta nel 1689, nacque l’Arcadia.

[19]   Sannazzaro: Jacopo Sannazaro -ma lei scrive Sannazzaro- fu un grande poeta e scrittore (1457-1530) autore dell’Arcadia, romanzo pastorale in prosa e in versi.

[20]   Pindo: monte della Grecia sacro ad Apollo ed alle Muse.

[21]   Aonia: l’Aonia era il nome di una regione dell’antica Grecia sacra alle Muse. Qui è aggettivo e si può intendere come metafora per “poetica rima”

[22]   Pregiudizio insano: si riferisce al mutato gusto in età romantica che vuole una poesia più complessa e meditata rispetto alla estrema semplicità dell’Arcadia.

[23]   Pergamene dorate: si riferisce alla vanità e alla corsa al successo.

[24]   Frini: è plurale di Frine (per indicare che come mei ce ne sono molti, uomini e donne!), la celebre etera vissuta ad Atene nel IV sec. A.C., che fu processata per empietà e assolta per la difesa dell’oratore Iperide.

[25]   Arminio: da giovane Luigi Carrer improvvisava in pubblico interi poemi ed ebbe un grande successo con l’Armino dei Cherusci, tanto che aggiunse al suo il nome Arminio, col quale apparve il primo volumetto di versi.

[26]   Prischi: antichi. Il riferimento è alla prima generazione di poeti arcadi

[27]   Delio: cioè di Delo, isola dell’Egeo dove secondo la mitologia classica sarebbero nati Apollo ed Artemide.

[28]   Allor: alloro.

Bruno Rosada

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