Venezia sorprende per Padova Sorprende
Sommario
Abstract
Breve intervista a Silvano Gosparini tra passato e futuro, storia e creatività, cultura e lavoro, arte e artigianato. Il Centro Internazionale della Grafica di Venezia, fondato e diretto da Gosparini, legato al territorio ma collegato con il mondo, è stato ed è un punto di incontro e dialogo culturale, sociale e politico per molti intellettuali oltre che produttore e diffusore di cultura.
Premessa
Venezia, quest’isola a forma di pesce, come bene ha sintetizzato lo scrittore veneziano Tiziano Scarpa, offre tesori inestimabili ed è anche essa testimone di storie esemplari ed ispiranti, degne di essere ricordate e raccontate. La voracità stessa, a cui la città pare si sia votata negli ultimi decenni, tende spesso a dimenticare queste storie e soprattutto i suoi interpreti. A maggior ragione se questi ultimi hanno saputo rimanere liberi ed indipendenti, sia nel pensiero che nelle azioni, conservando la loro passione e il loro amore, con coerenza e costanza.
Silvano Gosparini è una di queste persone che ha attraversato i cambiamenti più cruciali della città lagunare, rimanendo persona attenta, sensibile e disponibile verso le persone e soprattutto verso l’arte della stampa, “l’arte del fare” senza paura della contaminazione e del dialogo.
Nato a Venezia, nel sestiere di Sant’Elena, e qui rientrato, dopo una breve parentesi parigina, verso la metà degli anni ’60 ha messo in piedi il primo Centro Internazionale della Grafica a Venezia. E d’allora, questa sua attività è un fiero faro che mai si è spento. Purtroppo, questa sua attività, come altre della città insulare, rischia di sparire e cadere nel dimenticatoio per via di una politica avara nel sostenere e dare spazio e valore a tutto ciò che, comunque, ha nutrito socialmente, umanamente e artisticamente questa città. La breve intervista che ho raccolto vuole essere la prima di una serie tesa a raccogliere queste esperienze sociali ed artistiche di cui il tessuto veneziano è intriso, esperienze che molto spesso restano intrappolate tra calli e ponti. Incontro Silvano nella sede del Centro Internazionale di Grafica, proprio dove, più di un secolo fa, soggiornò la celebre anticonformista francese George Sand.
Intervista
Anna Lombardo: Ho trovato bellissima e illuminante l’intervista, che ti ha fatto Pierandrea Gagliardi nel 2017, in cui riassumi il vivace contesto intellettuale ed artistico della città lagunare negli anni ’60, che ti ha portato, successivamente, alla creazione della Scuola di Grafica Internazionale. Forse perché provengo, tra le altre, da una esperienza più che ventennale nel campo della didattica, una delle prime cose che mi ha colpito molto è stato proprio il concetto e la pratica vincente su cui poggiava il tuo lavoro e che, secondo me, dovrebbe essere alla base di ogni insegnamento degno di tale nome. Primo fra tutti, il fare “sporcandosi le mani”, che significa essere dentro alle cose non come spettatori ma come attori per capire e dirigere la propria creatività, le proprie potenzialità finalizzandole piuttosto verso una crescita personale ed una realizzazione di sè stessi come esseri umani liberi ed indipendenti. “Né servi né padroni” (come recita il titolo del dvd della tua intervista), insomma, ma persone, appunto, con un proprio atteggiamento critico verso tutto ciò che ci circonda e con una propria libera coscienza. Aspetti fondamentali che dovrebbero essere sempre garantiti nel pacchetto formativo che si offre ad ogni studente e studentessa e su cui la società stessa dovrebbe farsi garante e tutelare molto di più. Puoi raccontarci un po’ di questa esperienza di vita e di lavoro? Come ci sei arrivato e quanto difficile è stato mantenere questa rotta nel tempo?
Silvano Gosparini: Il mio carattere indipendente è stato il motore; poi il contesto in cui vivevo e da cui ben presto ho cercato di scappare, inventandomi un lavoro che cominciasse e finisse con me. Quindi un lavoro creativo non solo d’artista che all’inizio mi aveva coinvolto, ma un lavoro con implicazioni sociali: l’artigianato.
La zona dei Miracoli era ai tempi una vivacissima officina collettiva che per metà si svolgeva nei laboratori e il resto per strada. Lo spazio che avevo trovato era giusto di fronte alla chiesa dove c’erano marmisti, una intera calle, calzolai, corniciai, ebanisti, fabbri, cartellonisti, una cartiera e Arici all’inizio del suo, poi famoso, studio fotografico…, la vita pulsava ovunque. Le difficoltà c’erano, ma era lo stato naturale, essendo da poco finita la guerra; la povertà era una costante così come la solidarietà anche tra i tutori dell’ordine che risultavano più protettivi che persecutori.
A.L. Nella tua esperienza hai avuto contatti e contaminazioni in diversi campi: la musica, la religione, la politica e l’attivismo. Quali sono state le persone che ti hanno influenzato maggiormente o che tu hai influenzato o incoraggiato a tua volta?
S.G. Il mio piccolo laboratorio fu da subito un centro vivissimo di presenze: colleghi, artisti o persone che si affacciavano curiose e volentieri conversavano; accanto avevamo l’istituto delle suore Imeldine che era anche asilo e scuola elementare, e molto spesso le sorelle più giovani venivano incuriosite a discutere con noi.
Tieni presente che eravamo un gruppo ben identificabile nel nostro modo di vestire con grembiuloni da scultore e zoccoli di legno ai piedi per via della creta che lavoravamo. Quando uscivamo per bere il caffè al Milanbar, nel vicino campo San Canciano, erano discussioni impegnate, si parlava di politica e di filosofia.
Di questo periodo ne ha parlato Stringa nella sua ricerca sul territorio conclusa con una mostra e la stampa di due opuscoli/catalogo che documentano con dovizia storica e contemporanea la realtà del ‘900.
Una realtà in movimento, si lavora, si parla, si conosce e si incontra.
Apriamo uno spazio espositivo ai SS. Filippo e Giacomo aperto fino a mezzanotte con commesse, battitori-interpreti; è qui che approda tra gli altri Enzo Di Martino, allora giovane ufficiale di marina. Con lui apro un dialogo profondo, come una sfida, che lui raccoglie; lascia la marina e si unisce al gruppo anarchico, condividendo idee e lavoro. Con lui, Stella (che diventerà mia moglie), Lilli e Luisa Ronchini, si solidifica il gruppo di lavoratori libertari. Incontriamo degli altri compagni di Venezia e dintorni, e fondiamo, la Libreria Internazionale in calle dei Saoneri. Siamo agli inizi degli anni sessanta, e, si può dire su un filo difumo, perché avezzi alle sfide, smettiamo tutti di fumare (abbiamo fatto musina, cioè abbiamo messo da parte i soldi che spendevamo per le sigarette) per poterci permettere il lusso di dire “se si vuole si può” slogan che molto più tardi diverrà di moda. (Yes, We can).
Con Stella andiamo a Parigi a rifornire la libreria di libri, stampa anarchica e dischi. I compagni da tutto il mondo vengono a trovarci. Ma la libreria non ci basta. Troviamo accanto, nel rio Terà dei Saoneri, un largo spazio e lì costruiamo la Galleria Internazionale, pareti foderate di legno, tutto attorno panche di legno di mansonia (di Amazzonia. Lavorare il legno diventa il nostro nuovo amore.
Andavamo nel teren da legname (alla fine della fondamenta degli Ormesini dopo la croce) a scegliere le tavole, come facevano tutti i falegnami e costruivamo gli interni per botteghe e case. La galleria diventa ben presto un luogo di incontro trasversale, un punto di riferimento per la sinistra a Venezia, ma anche per i cattolici. Si aprono dibattiti, alle pareti si alternano mostre a tema: I pittori e la storia, I pittori e la cronaca, e altri… Noi guardiamo alla Comune di Parigi, molti sono i compagni francesi con cui condividiamo le scelte. Il nostro slogan diventa “ni Dieu ni maître”.
A.L. In questi anni di intenso e resistente lavoro di stampa, hai raccolto un materiale di grande valore non solo artistico, ma culturale, storico e antropologico direi anche, che già di per sé sarebbe un bell’archivio per la storia del Novecento di questa città, soprattutto quella fatta dalla gente per la gente. Certo è possibile vederlo e anche acquistare libri, stampe etc., presso Amor del Libro, il negozio di fronte all’Università Cà Foscari, al 3253 di Dorsoduro, ma mi chiedo se ti è mai stata proposta una tesi su tutto quello che hai conservato e se c’è un archivio consultabile a disposizione?
S.G. Non avevamo alcun senso di dover passare alla Storia e quindi non c’era bisogno di un archivio. Noi avevamo fretta di vivere e di costruire con l’impegno costante di cambiare il mondo e soprattutto di sopravvivere. Il Circolo Internazionale di Cultura Popolare prende forma visibile con la pubblicazione di fogli volanti e con i primi libri frutto di discussioni collettive. Ci si trovava al mercoledì sera a casa mia e di Stella, e poi pubblicamente in galleria. Scegliemmo come logo per il Centro l’albero della Libertà.
A.L. Così avete fatto musina” per raccogliere i soldi per un vostro spazio indipendente, decidendo di non fumare. La trovo una idea geniale oltre che salutare. Quante persone sono transitate per il vostro centro?
S.G. Il nostro gruppo si allargava di volta in volta, erano molto presenti i socialisti, i repubblicani e anche i cattolici, con loro vivo era il discorso anticlericale: I Lombroso, Anna e Paolo, De Michelis, Petris, Nane Paladini, e Sarpellon; si discutevano pubblicamente i temi del momento. Ricordo le discussioni su un libro allora contrastato e proibito, Il Vicario di Rolf Hochhuth del 1963, contro il potere temporale. Alla fine si creò un gruppo per approfondire gli argomenti, che dedicammo a Ernesto Rossi. La sinistra cattolica che faceva riferimento a Wladimiro Dorigo e alla sua rivista Questitalia, molti della redazione venivano spesso a discutere in libreria: Vania Chiurlotto, Bartolomei, Isnenghi, …e noi ci arricchivamo di altre visioni e aperture.
La partecipazione delle donne era forte. Giuliana Grando, per esempio, arrivò reduce da Nomadelfia e diventa uno dei pilastri del circolo e della galleria. Facemmo insieme i primi fogli volanti, i manifesti per il 1° Maggio, (molti erano i sindacalisti e portuali che ci frequentavano, primo fra tutti Vittorio Tommasi), denunciammo l’uso della Festa della Mamma, e il 4 novembre, unendo il disegno ai testi.
Non era apparente la vocazione internazionale ma reale, tra gli ospiti fissi della Galleria/libreria c’erano sempre gli studenti di architettura, sia italiani che greci e poi negli anni molti giapponesi, già architetti, che facevano il master a Venezia.
Con l’associazione Venezia Viva (che fondammo all’inizio degli anni sessanta) si aprì un dibattito più vasto, l’arte ne fu il mediatore e noi scegliemmo l’incisione come settore di riferimento, che secondo noi unisce la letteratura (il libro) e la grafica. Riprendemmo quindi questa tradizione con Riccardo Licata che insegnava e viveva a Parigi ma d’estate stava 3 mesi e più a Venezia. Decidemmo di fondare una scuola che portasse e diffondesse in Italia le tecniche sperimentali che lui già insegnava a Parigi nell’Atelier 17 di SW Hayter e in quello di Henri Goetz. Sono stati anni travolgenti.
Noi abbiamo due gallerie attive in città: Venezia Viva, con Giorgio Trentin, che fa capo all’Associazione Incisori Veneti che noi ospitiamo nella nostra sede di San Silvestro e il Segno Grafico a San Fantin, che nasce sotto l’egida di Mario Penelope allora curatore delle Arti Visive della Biennale e Enzo Di Martino che più di noi si occupa di questi contatti, essendo da anni giornalista e collaboratore dell’Avanti e critico d’Arte del Gazzettino.
A.L. L’artigianato e tutto il suo indotto da anni subisce una crisi che sembra irreversibile in questa città. I motivi sono molteplici e molti di varia natura economica, certo, ma quanto ha pesato in tutto ciò, secondo te, la sparizione dei “maestri”? O anche la mancanza di luoghi e situazioni in cui si possa lavorare “alla pari”, come quella coltivata, per esempio, nel Centro di Grafica Internazionale, in cui tutti si può essere un po’ maestri e discenti e godendo, al contempo, della massima garanzia di libera creatività? Quale consiglio ti sentiresti di dare a questo proposito alle istituzioni, ma non solo, per rimettere in moto questo settore?
S.G. Alle istituzioni non mi sento di dare nessun consiglio, per troppe volte siamo andati a proporre senza avere risposta e l’unica cosa da suggerire sarebbe quella di creare un elenco per zone delle varie attività e così aprire un dialogo con i vari artigiani, artisti, commercianti, che non fosse solo funzionale alle tasse ma una forma di conoscenza di quella che è la realtà vera, ciò che rimane degli operatori in città. Un censimento delle botteghe e dei vari proprietari.
A.L. Dalla tua tipografia escono libri che sanno ancora coniugare la bellezza dell’oggetto libro esaltando e impreziosendone il contenuto stesso. Negli ultimi anni, il mercato del libro, ha abbandonato l’attenzione verso la veste grafica e tipografica, – che immagino abbia dei costi in termini di lavoro e denaro abbastanza alto – e si sta impegnando sempre più verso un uso digitale, ponendo, più in modo strumentale che reale forse, la questione ecologica. Alla luce di questo, pensi che il libro cartaceo sia destinato veramente a perire, come da molti si vocifera o che veramente la distruzione delle foreste sia imputabile al libro?
S.G. Più che al libro e quindi alla carta, la distruzione delle foreste sarà da imputare alla edilizia selvaggia, basta andare all’Archivio di Stato e vedere come la Repubblica, quando tagliava i boschi, già aveva ripiantato gli alberi formando un ciclo continuo in cui l’oggi si occupava del domani. Del resto non saremo noi a scoprire che quando ai valori ideali (uguaglianza, solidarietà, ecc..) si sostituisce il valore denaro, il dialogo è chiuso, finito.
A.L. Per le copertine tu stesso mescoli gli inchiostri e poi li rileghi a mano. Indubbiamente i libri stampati dal centro presentano maestria d’eleganza ed architettura tipografica e questo aggiunge valore al libro stesso. Tuttavia, quel risultato è frutto di un lavoro di pazienza, cura ed indubbiamente amore, ma anche di tempo: cose che nell’economia del mercato oggigiorno sono aspetti considerati per lo più difetti e non pregi. Come riesci ancora a conciliare tutto questo e quante persone collaborano con te a questo processo? Quando stampi un libro, sia di arte o letteratura varia, quali sono i tuoi criteri per accettarlo? Tra i libri che hai stampato c’è qualcuno che hai amato più di un altro o che ti ha creato più problemi di un altro?
S.G. Tutti i libri, dedicati a Venezia, come i figli, sono stati egualmente amati, caso mai i problemi venivano dagli autori che alle volte non si rendono conto del tempo, ma anche loro, ognuno con la sua personalità, è stato amato: Lina Urban, Gianni Scarabello, Guglielmo Zanelli, Michele Emmer, Anna Alberati e gli altri; e poi c’erano i direttori di collana che facevano da scudo tra me e gli autori: Mirella Toso, Daniela Milani, Milena Milani, Carla Sanguinetti, ecc.
A.L. Questa città è innegabile si è trasformata molto velocemente ma la sua vocazione mono, ultimamente, ha lasciato molti feriti sul terreno che la pandemia sta aumentando tragicamente. Pensi che questa drammatica situazione possa, in qualche modo, favorire una riflessione anche rispetto all’artigianato?
S.G. La riflessione la faranno sicuramente gli artigiani che sulla loro pelle, ancora una volta dovranno subirne le conseguenze, noi abbiamo già dato.
A.L. Nel palazzo veneziano dove soggiornò la scrittrice George Sand, c’è la sede del Centro Internazionale di Grafica ma anche l’atelier gestito da Lilli Olbi (in arte Nicola Sene), -altra figura mirabile di questa storia della vita culturale di questa città che ci stai raccontando. Come convivono le due cose?
S.G. Noi come casa editrice ci siamo trasferiti qui dopo; Nicola Sene, con l’Atelier Aperto, ha di volta in volta accettato la comunione anche perché i lavori loro e il nostro si fondono, tanto che si è molto sviluppata l’edizione dei libri d’artista.
A.L. Quando si entra nel tuo ambiente di lavoro, una cosa colpisce subito: l’atmosfera serena, confortevole e intellettualmente vivace che non solo mette a proprio agio ma ti interroga su come, effettivamente, dovrebbe e potrebbe essere un ambiente di lavoro. Quale è il segreto che ti ha permesso di mantenerla così costante nel tempo?
Quale è il segreto di questo bel vivere il tuo lavoro, nonostante le situazioni soprattutto economiche, che lo rendono abbastanza precario e quindi non molto appetibile al giorno d’oggi.
S.G. Posso girarti la risposta dicendoti che anche le persone che vengono sono speciali, se no non vengono più e questo è uno dei motivi della resistenza.
La seconda ragione che ci fa sopravvivere è l’abitudine a non mettere il valore economico davanti a ciò che facciamo.
A.L. La tecnologia ha cambiato in qualche modo il tuo lavoro? Se sì, come?
S.G. Sì, lo ha cambiato molto, soprattutto ha rivoluzionato il sistema di stampa e quello del magazzino, anche se noi appena possiamo ritorniamo sulla stampa a mano, con i caratteri a piombo e con le opere stampate con i torchi.
A.L. Oltre la città di Venezia, che è la tua città natale, ci sono state altre città venete, (per esempio Padova) o in giro per l’Italia in cui hai cercato di ‘esportare’ questo tuo approccio lavorativo?
S.G. Sì, Padova, dove proprio al Caffè Pedrocchi abbiamo fondato il Centro Internazionale della Grafica con Tono Zancanaro; ma soprattutto a Roma dove abbiamo portato una scuola di grafica con i nostri metodi che continua ancora come Associazione Internazionale Incisori, collaborando con noi.
A.L. Parliamo della rivista Venezia Viva. Quale è la sua storia e cosa propone a questa città?
S.G. Beh, Venezia Viva merita uno spazio a parte, ma il principio fondante del tutto rimane quello di allora. Infatti, continuiamo a riportarlo uguale ad allora nella tessera annuale d’iscrizione che così recita: “Venezia Viva è una associazione culturale che nasce negli anni ’60 come movimento per la città con l’intento di confermare la presenza dei suoi abitanti, rinforzando le realtà produttive esistenti, soprattutto l’artigianato, le arti e i vecchi mestieri, promuovendo e diffondendo in special modo le attività proprie dell’arte dell’incisione e della stampa”.
Anna Lombardo