D’Annunzio e Ungaretti

Il volo su Vienna del maggiore D’Annunzio e il soldato di trincea Giuseppe Ungaretti

Abstract

Il Castello di San Pelagio costruito dai Da Carrara, Signori di Padova, con una imponente torre merlata, dal settecento è residenza signorile, con barchesse, giardino all’italiana, parco delle rose e tre labirinti, di proprietà dei Conti Zaborra. Da qui, abitandovi per circa un anno, D’Annunzio preparò e diresse il Volo beffa su Vienna del 9 agosto 1918, con una squadriglia di 11 apparecchi Ansaldo. Oggi parte del castello è Museo del volo con modelli di aerei, mongolfiere e dirigibili e una storia del volo umano da Icaro alle imprese spaziali e con importanti cimeli e documenti che ricordano l’impresa.

Prima di leggere il tono alto dei proclami di D’Annunzio interventista vale la pena rileggere, almeno in parte, una delle sue poesie più famose per gustarne l’intima musicalità: La pioggia nel pineto.

La pioggia nel pineto

Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove sui pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggeri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione.

Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitio che dura
e varia nell’aria secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
né il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancora, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirito
silvestre,
d’arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.

[…]

Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le palpebre gli occhi
son come polle tra l’erbe,
i denti negli alveoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i malléoli
c’intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggeri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
o Ermione.

Ritratto di D’Annunzio

Il messaggio di autorizzazione all’impresa da parte del Comando Supremo, dopo molte incertezze, fu in stile dannunziano e perfino un po’ bizzarro: “Con questo raid l’ala d’Italia affermerà la sua potenza incontrastata sul cielo della capitale nemica. Sarà vostro Duce il Poeta, animatore di tutte le fortune della Patria, simbolo della potenza eternamente rinnovatrice della nostra razza”.

Dopo due tentativi falliti il 9 agosto, alle 5.50, gli undici velivoli partirono, arrivarono a Vienna in otto e sganciarono 50.000 volantini redatti dal Vate che tra l’altro dicevano:

“E’ passata per sempre l’ora di quella Germania che vi trascina, vi umilia e vi infetta. La vostra ora è passata… Sul vento di vittoria che si leva dai fiumi della libertà, non siamo venuti se non per la gioia dell’arditezza, non siamo venuti se non per la prova di quel che potremmo osare e fare quando vorremmo”.

Sappiamo com’è finita poi a proposito di “quella Germania che vi trascina, vi umilia, vi infetta”!! Messaggio questo giudicato oscuro e intraducibile. Venne perciò lanciato, in 350.000 copie, un secondo messaggio, più chiaro ed incisivo, scritto da Ugo Ojetti in italiano e in tedesco: “Viennesi! Imparate a conoscere gli italiani. Noi voliamo su Vienna, potremmo lanciare bombe a tonnellate. Non vi lanciamo che un saluto a tre colori: i tre colori della libertà. Noi italiani non facciamo la guerra ai bambini, ai vecchi, alle donne… Voi avete fama di essere intelligenti. Ma perché vi siete messi l’uniforme prussiana?… Popolo di Vienna, pensa ai tuoi casi. Svegliati!”.

L’impressione fu enorme e non solo a Vienna; il comando supremo italiano emise un comunicato che è un canto di vittoria: “Zona di guerra, 9 agosto 1918. Una pattuglia di otto apparecchi nazionali, al comando del maggiore D’Annunzio, ha eseguito stamane un brillante raid su Vienna… I nostri apparecchi non vennero fatti segno ad alcuna reazione da parte del nemico, al ritorno volarono su Wiener-Neustadt, Graz, Lubiana e Trieste. La pattuglia partì compatta, si mantenne in ordine lungo tutto il percorso e rientrò alle 12.40” cioè dopo poco meno di 7 ore di volo.

Nel luglio di quello stesso anno il soldato semplice Giuseppe Ungaretti, dalle trincee del Carso, scriveva:

“Si sta come/ d’autunno/ sugli alberi/ le foglie”.

Gabriele D’Annunzio e Giuseppe Ungaretti, li ricordiamo nel centenario della prima guerra mondiale per i due modi opposti di vivere la guerra: l’interventismo del Vate è noto, come sono note le poesie di Ungaretti dalle trincee del Carso che, sempre in luglio, scriveva la poesia Girovago:

“In nessuna/ parte/ di terra/ mi posso/ accasare// A ogni/ nuovo/ clima/ che incontro/ mi trovo/ languente/ che/ una volta/ già gli ero stato/ assuefatto// E me ne stacco sempre/ straniero// Nascendo/ tornato da epoche troppo/ vissute// Godere un solo/ minuto di vita/ iniziale// Cerco un paese/ innocente”.

Ritratto di Giuseppe Ungaretti

Dal Valloncello dell’Albero Isolato aveva già descritto la distruzione dei paesi e la morte di tanti commilitoni nella poesia San Martino del Carso:

“Di queste case/ non è rimasto/ che qualche/ brandello di muro// Di tanti/ che mi corrispondevano/ non è rimasto/ neppure tanto// Ma nel cuore/ nessuna croce manca// E’ il mio cuore/ il paese più straziato” e in un’altra poesia, dal titolo significativo Sono una creatura, scriveva: “La morte si sconta vivendo”.

Ma il suo attaccamento alla vita era tanto più forte quanto più vedeva intorno a sé distruzione e morte, notti insonni, paure, dolore e disperazione come scrive nella poesia Veglia:

“Un’intera nottata/ buttato vicino/ a un compagno/ massacrato/ con la sua bocca/ digrignata/ volta al plenilunio/ con la congestione/ delle sue mani/ penetrata/ nel mio silenzio/ ho scritto/ lettere piene d’amore// Non sono mai stato/ tanto/ attaccato alla vita”.

Una vita complicata e ricca, da Alessandria d’Egitto, dov’era nato, a Parigi, dove aveva conosciuto pittori come Braque e Picasso, poeti come Apollinaire e gli italiani Soffici e Palazzeschi, fino alla realtà della guerra, una vita che Ungaretti tratteggia attraverso i fiumi che ha conosciuto e amato:

I Fiumi

Mi tengo a quest’albero mutilato
abbandonato in questa dolina
che ha il languore
di un circo
prima o dopo lo spettacolo
e guardo
il passaggio quieto
delle nuvole sulla luna

Stamani mi sono disteso
in un’urna d’acqua
e come una reliquia
ho riposato

L’Isonzo scorrendo
mi levigava
come un suo sasso

Ho tirato su
le mie quattr’ossa
e me ne sono andato
come un acrobata
sull’acqua

Mi sono accoccolato
vicino ai miei panni
sudici di guerra
e come un beduino
mi sono chinato a ricevere
il sole

Questo è l’Isonzo
e qui meglio
mi sono riconosciuto
una docile fibra
dell’universo

Il mio supplizio
è quando
non mi credo
in armonia

Ma quelle occulte
mani
che m’intridono
mi regalano
la rara
felicità

Ho ripassato
le epoche
della mia vita

Questi sono
i miei fiumi

Questo è il Serchio
al quale hanno attinto
duemil’anni forse
di gente mia campagnola
e mio padre e mia madre.

Questo è il Nilo
che mi ha visto
nascere e crescere
e ardere d’inconsapevolezza
nelle estese pianure

Questa è la Senna
e in quel suo torbido
mi sono rimescolato
e mi sono conosciuto

Questi sono i miei fiumi
contati nell’Isonzo

Questa è la mia nostalgia
che in ognuno
mi traspare
ora ch’è notte
che la mia vita mi pare
una corolla
di tenebre

Il maggiore Gabriele D’Annunzio, esteta, romanziere e poeta, il soldato semplice di fanteria Giuseppe Ungaretti, forse chiudono un’epoca e ne aprono un’altra; il luogo memoriale dell’impresa più famosa del vate, sempre eccessivo, è il Castello di San Pelagio, in località Due Carrare di Padova mentre per il soldato semplice Ungaretti, uomo di pena, i luoghi della memoria sono le trincee sul Carso. Cimeli di guerra di Ungaretti e D’Annunzio si trovano presso il Palazzo “Camerino – Bembo” di via Altinate a Padova, Museo della Terza Armata.

Nunzio Cereda

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