Sommario
Abstract
La città di Padova, con il suo territorio, vive anche di glorie riflesse, e tra queste bisogna collocare il personaggio universale di Francesco Petrarca (Arezzo1304 – Arquà 1374), poeta e preumanista del XIV secolo. Numerose le testimonianze della sua presenza, i ritratti e i documenti che avevano fatto parte della sua ricchissima biblioteca.
Petrarca cittadino europeo
Un po’ come Dante a Ravenna, Petrarca ha trascorso parecchi anni tra Padova (i molti affreschi che lo ritraggono ne sono una prova) ed Arquà, tra i colli Euganei, avendo trovato grande e munifica protezione dalla Signoria dei da Carrara, cui rimase sempre legato. Con la sua definitiva presenza a Padova, città ormai d’adozione, Petrarca, cittadino “europeo” rispetto al conterraneo Alighieri, suggellava con la sua opera letteraria quel preumanesimo padovano che aveva avuto nel poeta coronato in patria, Albertino Mussato, il suo maggior esponente con la tragedia in latino Ecerinis (Ezzeliniade).
Diversamente da Dante, ancora legato alla patria comunale, la sua sospirata Firenze (anche se prescindeva dai suoi concittadini che lo avevano condannato a morte), Petrarca si sentiva cittadino europeo (peregrinus ubique), senza riferimenti ad alcuna città, pur consapevole di appartenere ad una nazione, l’Italia, ai suoi tempi preda continua di potenze straniere e lotte intestine. Spiritualmente irrequieto e curioso alternava d’abitudine città e campagna (o collina) a seconda dei suoi diversi impegni e stati d’animo: economicamente tranquillo per la magnanimità dei vari signori che lo avevano caro, si era mosso tra Avignone e Valchiusa, tra Milano e Garegnano, tra Parma e Selvapiana e, infine, tra Padova e Arquà.
La visita di Boccaccio a Petrarca
Nel 1351 l’amico e ammiratore Boccaccio gli faceva visita nella casa canonicale di via Dietro Duomo (oggi n. 26/28) a Padova per comunicargli un invito, da parte del Comune di Firenze, ad accettare una cattedra nella nuova università toscana e la restituzione dei beni paterni confiscati nel 1302. Petrarca, alla maniera di Dante, rifiutò di ristabilire contatti con la città d’origine, persistendo anche il proposito di non legarsi a un incarico permanente. Boccaccio stesso rimase alquanto gratificato da quel soggiorno ed ebbe modo di verificare come Padova, e il sito di Arquà, fossero ormai entrati nel cuore dell’amico. Al poeta piacevano anche la grande Venezia mercantile e Treviso (qui saranno sepolti, coincidenze della storia, nella chiesa di San Francesco, sia il figlio di Dante, Pietro, sia la figlia naturale del Petrarca, Francesca).
Petrarca e Giacomo Novello da Carrara
Il signore che aveva avuto il merito di cercarlo più insistentemente di tutti fu Giacomo Novello da Carrara, verso il quale il poeta mostrò poi tutta la sua gratitudine senza deferenze da cortigiano o cliente. Quando l’amico carrarese venne assassinato per intrighi di corte il 19 dicembre 1350, per Petrarca fu un colpo terribile: se il principe padovano fosse vissuto ancora, egli non avrebbe mai abbandonato Padova, riconoscendo a quella signoria il merito di aver tenuto sotto controllo le diverse fazioni che l’avevano travagliata per decenni. Dopo quasi tre anni di soggiorno, Petrarca riprese a viaggiare, non prima di aver composto una lapide funeraria in latino, oggi nella chiesa degli Eremitani, per il sarcofago dell’amico scomparso: “Ohimè, angusta dimora per un uomo così grande. Ecco, sotto questi stretti marmi giacciono il padre, la speranza e la salvezza della patria. Chiunque tu sia, o lettore, che a questo sasso volgi gli occhi leggendo il triste destino della patria, unisci alle lacrime una preghiera. E se vi è fede nei meriti umani, non piangete lui, innalzato dalla sua virtù al di sopra delle stelle, piangete invece la grave ora della patria e le speranze dei buoni infrante dalla repentina sventura. Motivo di terrore ai suoi nemici, nessuno come lui ha coltivato le amicizie con tanta dolcezza…”.
Quella tragedia, che aveva colpito un principe che tanto lo aveva cercato, lo indusse a tornare, per l’ultima volta, alla pace di Valchiusa, in Provenza. Anche là, tuttavia, il ricordo struggente del principe caro lo portò, nella lettera ‘alla Posterità’, al racconto della loro relazione: “Avevo già da lungo tempo conquistata la benevolenza di Giacomo da Carrara il Giovane, gentiluomo perfetto e signore quale non so se in questo secolo ce n’è stato uno simile, anzi non ce n’è stato uno. Con messi e con lettere fin oltre le Alpi, quand’ero lì, e per l’Italia ovunque mi trovassi, per parecchi anni mi sollecitò e mi pregò con grande insistenza di entrare in relazione con lui. Da coloro che stanno bene non spero mai nulla; pure decisi di andare da lui…” (trad. P. G. Ricci).
Petrarca e Francesco il Vecchio da Carrara
Il suo definitivo ritorno in Italia, accompagnato dalla sua notevole biblioteca, avvenne qualche anno dopo, diretto prima a Milano sotto i Visconti, dove rimase per otto anni con il figlio Giovanni (morto di peste come già era successo a Laura). La nostalgia per Padova gli fece riprendere i contatti con il figlio di Giacomo II, quel Francesco (il Vecchio), che nel frattempo aveva stabilizzato il suo potere e avviate parecchie opere politiche e civili. Qui a Padova, in un ambiente più idoneo, si avvicinò alla cultura greca classica, procurandosi i poemi omerici e imparando quella lingua con il maestro calabrese Leonzio Pilato, che a Firenze avrebbe in seguito tradotto Omero in latino.
La breve parentesi veneziana
Nel frattempo, si era avvicinata al poeta anche l’oligarchia veneziana con il doge Andrea Dandolo, che, consapevole dell’importanza della sua famosa biblioteca, arrivò a un concordato per cui, con la promessa del lascito della stessa alla Repubblica, Petrarca poteva fruire con la sua famiglia di una casa in riva agli Schiavoni con altri donativi oltre a quelli già in possesso. Di fronte però a un principe, il doge, e a magnati non avvicinabili alla maniera dei principi carraresi, pose fine ad ogni accordo costituito e si ridusse a Padova, accolto sempre con calore da Francesco il Vecchio. (All’abbandono di Venezia non fu forse estraneo il fatto che quattro giovani filosofi “averroisti”, nel 1366, lo avessero bollato come “ignorante”, senza che alcuno avesse reagito. Avrebbe risposto a quell’accusa l’anno dopo con uno scritto in latino).
Ritorno a Padova. La casa di Arquà
A Padova in fin dei conti aveva ricevuto un suo canonicato con rendita, qui aveva trovato un valido segretario-copista, Lombardo della Seta; qui aveva stretto amicizia con quel medico e accademico, inventore di un astrario per piazze e campanili che rispondeva al nome di Giovanni Dondi, poi con l’aggiunta ‘dall’Orologio’, pure rimatore; qui il principe carrarese, conoscendo le sue preferenze, gli aveva procurato un appezzamento con rustico da riattare presso Arquà, nell’amenità dei colli Euganei, per il suo romitaggio spiritual-culturale. In questa casa, prototipo si può dire della villa veneta, salvo un’ambasceria, a Venezia per contrasti con la signoria carrarese, risultata vana, Petrarca visse fino alla fine dei giorni, il 19 luglio 1374, con la compagnia della figlia Francesca e del consorte, erede designato anche per la biblioteca del suocero, Francescuolo da Brossano, del nipotino Francesco e della sua famosa gatta. Ad Arquà Petrarca aveva imparato a dedicarsi anche all’orto, al vigneto, all’oliveto e al giardino, come illustra minutamente e con compiacenza in una sua lettera. L’estrema sua Elicona potremmo definirla, anche se ambascerie estreme non mancarono, come detto, e scorrerie di eserciti nei dintorni. A sua volta nei confronti del principe operoso il poeta era prodigo di consigli: alla “bellissima e nobilissima” città, fondata dall’eroe Antenore e più antica di Roma, consigliava per esempio di non permettere la vista di branchi di porci vagare per le vie, di non sentire più le grida delle prefiche nell’accompagnare i funerali e altro ancora.
La sepoltura ad Arquà
Ad Arquà per testamento volle essere sepolto, se là l’avesse colto la morte, come poi avvenne, accanto alla chiesa parrocchiale Santa Maria. Lavorò sino alla fine alla correzione e alla stesura delle opere incomplete, le Epistole, I Trionfi e il Canzoniere in primis, dopo che si era accorto che le sue “nugae” (bagatelle poetiche), avevano suscitato tanto interesse: in effetti rispecchiavano il personaggio che lui voleva lasciare di sé, esaltando quell’amore per Laura, diventata nel tempo un vero rompicapo per letterati e filologi sulla sua reale identità. Si è accennato alla preziosa biblioteca del Petrarca, ai libri suoi amici, e Padova ha avuto la fortuna di diventare un centro di conservazione e trascrizione delle sue opere. L’originale del Canzoniere, infatti, che si credeva perduto, fu poi ritrovato e stampato in fac-simile. Da quella raccolta di “bagatelle” in volgare sarebbe nato in seguito e rimasto vivo per secoli, il movimento del Petrarchismo, con la figura centrale del letterato rinascimentale veneziano Pietro Bembo, che indirizzò la sua vita (e la poesia in volgare) alla maniera del grande aretino. Da rilevare che dopo di lui il poeta-letterato-consigliere di corte avrebbe raggiunto un rango sociale nuovo, quasi di un funzionario del principe.
Ancora come il conterraneo Alighieri (da cui diceva non voler farsi influenzare), anche i suoi resti mortali non ebbero pace. Otto anni dopo la sua scomparsa, nel sagrato della chiesa di Arquà un monumentale sarcofago di marmo rosso avrebbe dominato per sempre il vecchio e piccolo camposanto ridotto poi a piazzola. Eppure, mani sacrileghe l’avrebbero violato più volte per sottrargli parte dei resti come reliquie, per non parlare dell’antropometria cui fu sottoposto nell’Ottocento e che ne smembrarono il capo. Sarebbe una storia lunga quella delle ricognizioni di quella salma, tra l’altro finita a Venezia durante la Seconda guerra mondiale in fretta e furia. Sorpresa sconcertante dopo l’ultima per il settimo centenario della nascita (di cui si è qui già scritto): il cranio del Petrarca è andato perduto e al suo posto è stato trovato uno femminile anteriore alla sua esistenza!
I ritratti di Petrarca a Padova
Padova possiede una certa quantità di ritratti a fresco e altre tecniche del grande poeta: proveremo a farne un elenco quale riscontro della persistenza della sua memoria nella città: nella cappella di San Giacomo al Santo, particolare del Consiglio della corona di Altichiero da Zevio (1372-1373); particolare della Guarigione del Paralitico di Giusto de’ Manabuoi nel Battistero del Duomo (1375-1378); ancora di Altichiero da Zevio nella scena di S. Giorgio che battezza re Sevio nella cappella esterna di S. Giorgio al Santo (1377-1384); ritratto già nella casa canonicale del poeta presso il Duomo, ora nella sala dei vescovi in episcopio; forse di Altichiero da Zevio ritratto, molto alterato, nella Sala dei Giganti; ritratto ideale del poeta laureato nella Sala del Sacro Collegio nel palazzo vescovile; miniatura-ritratto del poeta nell’iniziale di un manoscritto della fine del XIV sec., proveniente verosimilmente da Padova, nel De remediis utriusque fortunae alla Marciana; Petrarca e Laura in frontespizio del Canzoniere stampato a Padova per il cardinal Ludovico Trevisan da Bartolomeo Sanvito (1460-1465), ora a Londra al Victoria and Albert Museum; Petrarca nel suo studio, miniatura padovana di fine Trecento nel verso della pagina d’inizio del codice Papafava con il volgarizzamento del De viris illustribus, ora a Darmstad (Hessinshe Landesbibliotek, ms. 101), poi riportato nella Sala dei Giganti, come detto rimasto assai mutilato; infine ritratto del Petrarca di Altichiero da Zevio per un codice del De viris illustribus, trascritto da Lombardo della Seta nel 1379, ora alla Biblioteca nazionale di Parigi.
Altri affreschi posteriori sulla vita del poeta, di autore ignoto, di età non precisa e di non eccelsa perizia esistono nella casa di Arquà.
Gianluigi Peretti